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Antonino Cannavacciuolo - Foto da Facebook

Antonino Cannavacciuolo: «I mostri? Me li mangio»

Di
Redazione Millionaire
5 Maggio 2017

A Napoli è considerato il nuovo Maradona. Fattura 3 milioni di euro l’anno, ha un ristorante con 2 stelle Michelin, conduce programmi tv, scrive libri e fa showcooking allo Stadio Olimpico di Roma.

Ha bruciato tutte le tappe. Figlio d’arte, 2 stelle Michelin, 3 forchette Gambero Rosso, Antonino Cannavacciuolo a Napoli è considerato il nuovo Maradona. E, per lui, tifoso del Napoli, Maradona è un mito. «Quando ho cucinato per lui spaghetti ai frutti di mare mi sono molto emozionato». Perché Antonino Cannavacciuolo, classe 1975, giudice a MasterChef e mattatore di Cucine da incubo, mette il sentimento in tutto ciò che fa. «Le emozioni devono uscire, sono positive, ti ricaricano, sono antitumorali». Un messaggio urlato anche a gran voce lo scorso aprile nel suo showcooking Pure tu vuoi fare lo chef? allo Stadio Olimpico di Roma, davanti a 1.300 persone.

A Cannavacciuolo sono bastati 4 anni di lavoro da chef per conquistare una stella Michelin e 7 per ottenerne due. Come c’è riuscito? Partendo da una gavetta durissima. Prima in Campania e poi in Piemonte. È del 1999 l’esperienza presso il prestigioso Hotel Quisisana di Capri e l’ispirazione ad assumere la gestione di Villa Crespi, a Orta San Giulio (No). Oggi Cannavacciuolo fattura oltre 3 milioni di euro l’anno, ha pubblicato 3 libri e fondato un’attività di consulenza per ristoranti e alberghi. Millionaire l’ha incontrato.

Chi era Antonino prima di diventare Cannavacciuolo?

«Un ragazzo con tanti sogni nel cassetto. I sogni non si dicono. Si mettono in un cassetto piccolo che diventa una parte del proprio cuore e si accarezzano con il pensiero: se ne si ha la giusta cura, un giorno si avverano».

Qual è la svolta nella sua vita da imprenditore?

«Quando è nata mia figlia Elisa, 9 anni fa. Prima potevo permettermi di fare una vita da “scialone”, se facevo tardi la sera il giorno dopo sarei stato un po’ “acciaccato” in cucina, ma tutto finiva lì. La sua nascita invece mi ha trasformato in un imprenditore: improvvisamente avevo qualcosa da difendere e ho sentito che non potevo più sgarrare. Un mio fallimento si sarebbe riflesso su Elisa e poi anche su Andrea, nato 5 anni dopo».

E la svolta come chef?

«Quando sono andato a lavorare al Quisisana. Eravamo una bella brigata. Lì ho ricevuto l’impulso di fare stage all’estero. Esperienze che mi hanno consentito di iniziare il mio lavoro a Villa Crespi quando avevo 23 anni. Ecco perché consiglio a tutti di frequentare dei corsi».

Chi è stato il suo vero maestro?

«Mio padre. È stato lui a trasmettermi l’amore per questo mestiere. Restavo ore, affascinato, a guardarlo mentre plasmava sculture di margarina. Lo accompagnavo quando andava a cercare la carne buona. Imparavo da lui quando comprava il pesce senza guardare tra i banchi, ma facendosi aprire la cella frigorifera sul retro».

Però suo padre non voleva vederla chef…

«A causa del suo lavoro, mio padre è stato obbligato a stare spesso lontano dalla famiglia. Ecco perché ha combattuto con me una vera battaglia: non voleva che io vivessi la stessa esperienza. Rispetto a lui, io però sono più fortunato: gestisco un’attività mia e mia moglie lavora con me».

Cosa faceva per convincerla a non diventare chef?

«Mi mandava a lavorare nelle cucine più “bestiali”. Quando avevo 15 anni, mi sono preso una cazziata stratosferica davanti a 20 cuochi: “Tu vuoi fare il cuoco solo per tuo padre, ma non ci riuscirai” mi ha urlato lo chef. Eppure io volevo lavorare in cucina e se non avessi potuto farlo avrei vissuto per strada: o quello o niente, con mio padre ero stato chiaro. Siamo stati in contrasto per tre mesi, fino al giorno prima che iniziassi a frequentare l’istituto alberghiero. Poi, al primo giorno di lezione, mi accompagnò a scuola in macchina».

Che cosa ci vuole per fare l’imprenditore?

«Il fiuto. Che è come il talento: o ce l’hai o no. E poi ci vuole coraggio: può anche capitare di avviare iniziative senza averne i mezzi. Infine, ci vuole c… Bisogna buttarsi, a volte va bene, altre volte no, ma la fortuna è necessaria. Credo molto nella fortuna. Ma credo anche che la fortuna sceglie chi baciare, cercando tra persone positive».

Qual è il suo punto di forza come chef?

«Saper fare squadra. Bisogna caricare le persone con cui si lavora, motivarle. Bisogna parlare con loro, spronarle a diventare i primi, far capire che se lo faranno potranno avere un ristorante tutto loro».

Qual è la qualità principale di un motivatore?

«Credere in ciò che fa. Io cerco di far capire che non c’è nulla di scontato, che bisogna riprovare finché si arriva alla svolta. Che non bisogna accettare scuse da se stessi. Piuttosto, si deve pensare ai propri obiettivi come a una bella donna che si vuole conquistare: mai darsi per vinti al primo rifiuto, magari è necessario un anno per strappare il primo sì».

Consigli a un giovane che vuole diventare chef?

«Iniziate subito, perché ciò che si può provare e ciò che ci ispira a 15 anni non torna più. Chi ha una passione autentica, anche da giovanissimo ha piacere di stare in cucina, impastare, scoprire gli ingredienti. Quando avevo 8 anni dicevo di voler diventare calciatore, ma non mi allenavo mai: perché non era un vero desiderio».

INFO. www.antoninocannavacciuolo.it

 

Da un estratto dell’articolo di Maria Spezia «I mostri? Me li mangio» pubblicato su Millionaire di giugno.

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