Ha fatto del colore il centro del suo business. E nei suoi abiti ha messo fiori e cuori. Discendente da una famiglia aristocratica, ha iniziato a lavorare a 15 anni. Agatha Ruiz de la Prada, in Spagna, è una celebrità. Ma anche in Italia qualcosa si muove. Tanto che l’Università di Bologna…
In Spagna è un’icona. Nella moda come nel design. E ascoltare la sua storia è come ripercorrere gli eventi di questo Paese. Agatha Ruiz de la Prada, 50 anni, è nata artisticamente nel periodo della movida madrilena, quando i fenomeni culturali si diffondevano a velocità enorme. Figlia del più grande collezionista di arte contemporanea spagnolo e discendente da una ricca famiglia aristocratica, ha iniziato a lavorare prestissimo. La prima sfilata con i suoi risparmi, il negozio-studio di Madrid, i pomeriggi culturali negli anni 90. Ha fatto del colore il centro del suo business, intuendo presto che il successo stava nel licensing, ossia nell’estendere il suo marchio su una molteplicità di oggetti, dai mobili ai tessuti, dagli accessori moda alle porte blindate. è sposata con Pedro Ramírez, fondatore e direttore del quotidiano El Mundo. Insieme formano una delle coppie più potenti della Spagna. «Per tutta la vita ho sognato di avere un capo» racconta a Millionaire «ma alla fine ho fatto tutto da sola».
Lei non è stata una figlia di papà?
«Sono un’ambiziosa e fin da ragazzina volevo emergere. Certo, non avevo bisogno di lavorare per mangiare, eppure ho cominciato prestissimo. Ho frequentato la scuola di moda solo per un anno, a 15 anni ho iniziato a disegnare abiti, a 20 ho organizzato la mia prima sfilata. Volevo sperimentare, disegnare, creare. Mio padre mi ha trasmesso l’amore per l’arte, volevo fare la pittrice ed essere la numero uno… ma diventare come Picasso era un po’ difficile (ride, ndr). Così sono diventata stilista».
Quanta parte della sua vita dedica al lavoro?
«Non c’è differenza tra lavoro e non-lavoro: faccio solo quello che mi piace per almeno 14 ore al giorno. In più, vivo con un giornalista workaholic. Lavorare è molto divertente. E secondo me bisogna iniziare prima possibile. Oggi i giovani, e i miei figli in primis, rimandano troppo, studiano troppo. Si laureano, fanno un master, poi un altro ancora. Sono iperpreparati. Quando hanno finito di studiare stanno quasi per andare in pensione. Invece bisogna buttarsi subito: prima si inizia a fare una cosa, meglio è».
Quindi studiare non serve a nulla?
«Sono un’autodidatta, ma ho sempre dedicato tantissimo tempo all’apprendimento: leggo molto, cerco di farmi un’opinione, di conoscere persone nuove. Prendo ispirazione dal mondo dell’arte e della cultura in generale. Anzi, sono ossessionata dal rapporto tra arte e moda. Ci sono due cose che un bravo direttore generale dovrebbe fare ogni giorno, in qualsiasi campo lavori: dedicare un’ora alla lettura e partecipare a un evento culturale, che si tratti di una mostra, un concerto, una conferenza».
È il colore il segreto del suo successo?
«Il colore è qualcosa di cui non posso fare a meno, è connaturato in me. Io odio il nero e il beige. Da bambina la mia favola preferita era Le scarpette rosse di Andersen. E ancora oggi, se entro in un negozio e vedo un paio di scarpe rosse in mezzo a tante nere, compro quelle rosse. L’amore per il colore è anche una conseguenza del mio amore per l’arte, e in particolare per quella contemporanea. Joan Mirò, Pete Mondrian, Jeff Koons e Takashi Murakami sono tra i miei artisti preferiti».
Quanto ha contato iniziare nel periodo della movida madrilena?
«È stato fondamentale. L’inizio degli anni 80 era un momento magico per la Spagna, e Madrid era il centro intellettuale del mondo. Eravamo un gruppo di giovani artisti: pittori, scrittori, registi, tra cui Pedro Almodóvar. Tra di noi c’era molto interscambio, qualsiasi cosa facevi aveva una risonanza enorme. Mi sono trovata al posto giusto al momento giusto. Dopo la prima sfilata sono diventata subito famosa, ero l’unica stilista donna e più giovane di 10 anni rispetto ai miei colleghi maschi».
Nella sua carriera è stato tutto facile?
«I problemi nella vita ci sono sempre, ma si possono risolvere. Per farlo è meglio essere un po’ “tonti”. Perché se anche riesci a risolverne una piccola parte, sei contento lo stesso. Se sei troppo intelligente, se pensi troppo, sei meno preparato ad affrontare le difficoltà».
Non a caso lei è stata definita la “signora dell’allegria”?
«Sono un’ottimista di natura. Ed è questo il messaggio che cerco di trasmettere da sempre. È una filosofia di vita che ho mutuato dalla mia famiglia d’origine: mia nonna ha sempre guardato al lato positivo delle cose, è stata una persona felice, mia madre invece era depressa. Ho scelto di assomigliare a mia nonna».
In Spagna il suo è uno dei marchi più famosi. E in Italia?
«In Italia c’è molta più concorrenza nella moda. Ho rapporti di lavoro con il vostro Paese da una decina d’anni, e nel 2003 ho aperto il mio negozio a Milano. Sono innamorata dell’Italia, credo che abbia la qualità della vita migliore del mondo e che tra italiani e spagnoli ci sia un feeling particolare. Tuttavia, non so se per poca fortuna, finora non ho avuto esperienze molto positive con le aziende italiane con cui ho lavorato».
Ha anche punti vendita in franchising?
«Avere dei negozi è un mestiere difficile, la concorrenza è enorme. E non ho mai pensato al franchising, perché ho preferito concentrarmi sulle licenze, che sono circa 50 e occupano gran parte del mio tempo».
Dalla movida alla Spagna del 2011: la fiesta è finita?
«La crisi ci ha colpito profondamente. Ma siamo stati poveri per molti anni, e non credo ci saranno traumi se torneremo com’eravamo. Anche la mia famiglia d’origine, che è nobile ed è stata molto ricca, ha vissuto la decadenza. A casa mia la parola d’ordine era “austerità”. Io sono ancora così: non mi interessa andare al ristorante, avere una bella automobile, non mi piace il lusso. Questo mi aiuta a superare i momenti difficili. Ed essere decadenti in fondo è molto elegante».
INFO: www.agatharuizdelaprada.com
L’esperto
Agatha? Materia di studio
Un’artista NeoPop. Così è stata definita Agatha Ruiz de la Prada dall’Università di Bologna, che ha dedicato alla stilista spagnola una giornata di studi nell’ambito del corso di laurea in Moda. «La Pop Art, quella di Andy Warhol e Roy Lichtenstein, elevava ad arte oggetti di consumo di massa, ma che non coinvolgevano emotivamente, come la zuppa Campbell o il viso di Marilyn Monroe» spiega Fabriano Fabbri, professore di Storia dell’arte contemporanea e organizzatore della conferenza. «Il NeoPop, invece, prende come riferimento oggetti intimi, teneri, commoventi: cuori, fiori, peluche, giocattoli. Sono proprio quelli che si ritrovano nelle stampe e nelle sagome degli abiti di Agatha Ruiz de la Prada». Non a caso la stilista è soprannominata la reina de corazónes, la “regina di cuori”, perché mette i cuori dappertutto nelle sue creazioni. Le altre caratteristiche del NeoPop? I colori fluorescenti, dal fucsia al verde shocking, dai gialli sulfurei ai blu elettrici, e le ampie campiture di colore. Quindi con la moda il mondo dell’arte incontra quello della produzione? «È proprio questa la sua ragion d’essere» sottolinea Fabbri. «La moda non è altro che la conversione di una ricerca estetica in un oggetto alla portata di tutti. A maggior ragione nel caso degli abiti di Agatha, perché i prezzi sono particolarmente accessibili (da 60 a 100 euro, ndr)».
INFO: www.magistralemoda.unibo.it
Tiziana Tripepi, Millionaire 4/2011