Con circa 1.500 spazi espositivi permanenti, la maggior parte gratuiti, Londra è sempre stata la città dove arte e business vanno a braccetto, giocando un ruolo importante nella scena culturale della città. E i galleristi italiani hanno saputo cogliere molte opportunità di business. Oggi però Brexit e Covid hanno complicato la vita ai nostri imprenditori.
Nel 2014-2015 la City era il luogo dove investire, avviare una galleria (possibilmente a Mayfair) e partecipare alle fiere di settore. Ursula Casamonti, della Tornabuoni Arte, è stata una delle prime ad aprire, quando l’arte italiana era di gran moda nella capitale inglese.
«Quando ho aperto la galleria era un periodo bellissimo» ci racconta sorseggiando un caffè nella sua casa londinese vista London Eye. «Si sentiva una grande energia in città». Poi sono arrivati prima la Brexit, quindi due lockdown che hanno messo a dura prova i mercanti d’arte italiani di Londra.«Fino a quando la capitale britannica ha fatto parte dell’Unione europea, tutti gli scambi di opere d’arte avvenivano senza costi aggiuntivi. Ora invece la dogana costa di più, così come la spedizione, per non parlare dei costi di trasporto delle opere d’arte, che sono triplicati» prosegue Ursula Casamonti.
Insomma, per alcuni è stato un duro colpo. C’è chi ha scelto di restare, come Lorenzo Ronchini, della Ronchini Gallery. E chi ha deciso di andare via, come Ursula Casamonti, che ha chiuso, lasciando un pezzo di cuore in città.

Chi resta…
«Londra è cambiata e molti miei amici sono tornati in Italia. Io ho scelto di restare» racconta Ronchini, in viaggio fra Dallas e Bruxelles. «Durante i lockdown il Governo mi ha aiutato con un prestito bancario che devo ripagare a tassi molto bassi, per circa 10 anni, e con un aiuto simile alla Cassa integrazione italiana».
Lorenzo, perché ha scelto questa città? «Ho aperto 10 anni fa. Ho scelto Londra per la voglia di crescere, guardare oltre, confrontarmi con nuove e stimolanti realtà. La Galleria Ronchini è stata sempre proiettata verso il futuro, ecco perché deve sempre andare avanti e ampliare i suoi obiettivi e i suoi orizzonti. A Londra il mercato dell’arte è molto più attivo rispetto a ogni città italiana. Così, dopo aver pensato di aprire a Roma o Milano, ho ritenuto che farlo all’estero fosse la cosa migliore da fare, anche per seguire meglio i clienti americani, che sono l’80% del mio business».
Come è cambiata la Galleria negli anni? «Non credo sia cambiata in questi 10 anni. Ho sempre cercato di far convivere artisti “storici” e giovani proposte. Vengo da una formazione molto legata al percorso di mio padre: l’informale, l’arte povera, il concettuale e poi ancora un ritorno alla pittura. In galleria si sono alternate mostre di artisti come Conrad Marca-Relli o Alexander Calder e Fausto Melotti, ad altre di giovani americani come Rebecca Ward e Richard Höglund. Il programma è comunque incentrato sulle novità, ma mi piace questa “contaminazione” di artisti che rappresentano la storia dell’arte. E forse anche un po’ la mia».
Come ha vissuto gli ultimi due anni con l’arrivo della Brexit? «Per quanto riguarda il business, c’è stato un aumento dei costi, soprattutto legati ai trasporti delle opere d’arte. Costi che sono raddoppiati con l’uscita del Regno Unito dall’Ue. Per il resto non credo ci sia stato un impatto così importante per me. Ma non ho mai avuto molti clienti inglesi, quindi direi che in linea di massima la Brexit non mi ha cambiato».
Qual è stata la più grande difficoltà? «Entrare nelle fiere internazionali. C’è grande competizione, ma ora la galleria partecipa a Frieze Masters a Londra, The Armory Show a New York, Art Brussels e a molte fiere negli Usa, come la Fiera d’Arte Contemporanea a Dallas».
Arte e business. Si compra per passione o per investimento? Com’è cambiato l’approccio di chi acquista? «Sono cresciuto nella vera cultura di un collezionista che amava l’arte e lo faceva con passione, questo è quello che mi ha insegnato mio padre. Non ritrovo in nessuno dei miei clienti (tranne rare eccezioni) lo spirito che contraddistingueva i collezionisti degli anni ‘70 e ‘80, che sono il mio punto di riferimento».
Se le dico NFT cosa mi risponde? «Rispondo finanza, non arte. Ma saranno certamente parte del nostro futuro e forse, ripeto forse, anche del mio, anche se spero in minima parte».
Progetti? «Ho tanti progetti e sogni. Non sono interessato ad aprire altri spazi in giro per il mondo, a meno che non si presenti un’opportunità incredibile, ma mi piacerebbe continuare a proporre giovani e riscoprire artisti dimenticati».

E chi va
Ursula Casamonti ha aperto a Londra nel 2015, un anno dopo il suo arrivo in città.
«In quel periodo sono arrivate tutte le più grandi gallerie italiane: Stefano Cortesi di Cortesi Gallery, Matteo Lampertico con la sua ML Fine Art, Davide Mazzoleni di Mazzoleni Art. Tornabuoni Arte ha aperto avendo già alle spalle tante gallerie in diverse città italiane e all’estero. Siamo a Firenze, Milano, Forte dei Marmi, Crans-Montana e Parigi. Poi mio padre 4 anni fa ha aperto, sempre a Firenze, il museo privato “Collezione Roberto Casamonti”. Nel 2011 sono andata a vivere negli Stati Uniti per questioni famigliari, ma dopo 3 anni ho deciso di tornare, aprendo a Londra. Era il momento più alto, il mercato andava benissimo, si respirava una grande energia, ma venire a Londra è un grande impegno finanziario e già nel 2015 si cominciava a sentir parlare di Brexit.
La galleria è rimasta aperta per 6 anni e ogni anno ho organizzato 5-6 mostre importanti come quella di Fontana, con cui ho aperto, con l’obiettivo di rappresentare l’arte italiana a Londra. Abbiamo lavorato molto bene, tanto che Nathan Clements-Gillespie, il direttore artistico di Frieze Masters (uno degli appuntamenti più importanti al mondo che si svolge a Londra), ha nominato Tornabuoni Arte come una delle maggiori gallerie italiane qui a Londra. Insomma, ero molto contenta, stavamo facendo un ottimo lavoro».
Effetto Brexit? «L’arrivo della Brexit ha portato a un anno pieno di incertezze. Era il 2019 e avevo preparato una mostra di Burri e Fontana del valore di 100 milioni di euro. Avevo organizzato tutto, era già tutto allestito, ero pronta per l’apertura, poi però ho scoperto che entro il 29 marzo dovevo riportare tutti i quadri in Italia perché, con la Brexit, al rientro avrei pagato 100mila euro di tasse doganali. Così ho chiuso subito la mostra e l’ho riaperta in Italia. Successivamente sono arrivati due lockdown causa Covid-19 e non ce l’ho fatta. Chiudendo la galleria ho risparmiato un milione di euro. Certo, ho chiuso lasciando qui un pezzo di cuore, ma con l’dea di riaprire. Sto solo aspettando il momento giusto».
NFT: un’opportunità? «A settembre organizzerò una mostra di Alberto Biasi a Firenze presentando, insieme alle sue opere, un NFT. Sto studiando molto per capire in cosa consista. Se mi piace? Direi “ni”. Io la vedo come una speculazione, ma se Sotheby’s e Christie’s propongono gli NFT, non posso fare finta di niente e rimanere indietro».
Progetti futuri? «A breve lancerò una rivista cartacea e digitale dove racconterò l’arte digitale. Vorrei essere a metà tra arte tradizionale e arte digitale, cercando di mettere insieme le tre generazioni che caratterizzano Tornabuoni Arte: quella di mio padre, la mia e di mio fratello e, infine, la generazione di mio figlio».
Da Millionaire giugno 2022.