È l’ora delle coffee house

Di
Redazione Millionaire
3 Agosto 2012

Il caffè come protagonista di locali di nuova generazione. Dove si degustano varietà da tutto il mondo e diversi tipi di aromi. Nuovo e promettente il format. In franchising e non solo. Si torna a parlare di “oro nero”

È la bevanda più consumata al mondo dopo l’acqua, con due miliardi e mezzo di tazze bevute al giorno. Qualcuno lo chiama “la musa nera”, qualcuno “bevanda del diavolo”. Secondo l’Istituto di Scienza di Tsukuba, in Giappone, il caffè attiva i geni cerebrali del risveglio e aiuta anche i più assonnati a ritrovare lucidità in tempi brevi. In Italia, il 22% della popolazione consuma almeno un espresso al giorno fuori casa. E no­­no­stante l’alto numero di locali già attivi (circa uno ogni 400 abitanti), c’è ancora spazio per intraprendere. Infatti, secondo le ricerche esposte lo scorso febbraio al Forum scientifico di Brescia (www.coffeetasters.org), due terzi degli italiani non hanno un bar abituale e si fermano un po’ dove capita. «I consumatori considerano irrinunciabile la pausa caffè perché simboleggia un momento di socializzazione e relax» esordisce Glauco Sarvognani, docente di Marketing presso l’Università Cattolica e relatore al Forum. Come intraprendere nel settore? La formula tradizionale di caffè-bar indipendente prevede la scelta di un fornitore che propone la propria miscela in grani in poche varianti (di cui le principali sono espresso e decaffeinato), e che spesso procura anche i macchinari (per la macina e per preparare l’espresso) e altre attrezzature (tazze, tovagliolini…) con logo proprio. In alternativa ci sono alcune insegne franchising, come Segafredo Zanetti, Lavazza…

Ma le novità del settore sono le coffee house, locali dove si degustano più tipi di caffè. «Il nostro primo esperimento risale al 1997, ma allora il pubblico non era ancora interessato. Nel 2001 ci siamo resi conto che era possibile proporre la degustazione di più tipi di caffè. E così abbiamo convertito il nostro bar tradizionale in un locale in cui il caffè è protagonista: circa 15 le varietà servite, dall’intenso Jamaica Blue Mountain all’Etiopia Sidamo, dalle note liquorose» spiega Cristina Caroli, che nel 2001 a Bologna ha avviato Aroma (www.ilpiaceredelcaffe.it) con il socio Alessandro Galtieri. «Per la preparazione usiamo la moka ma anche la napoletana, l’infusione e la turca. Abbiamo poi aggiunto delle ricette: quella allo zabaione di nostra produzione, al fiordilatte, con latte di mandorla…» spiega Caroli. «Siamo aperti fino alle 18 perché la nostra offerta è meno adatta alle ore serali. E abbiamo rinunciato al servizio di tavola calda e agli alcolici: proponiamo caffè e cioccolate, in aggiunta a brioche e biscotti per accompagnarli» aggiunge Caroli.

Il franchising

Il concept di locale in cui sbizzarrirsi tra varietà da tutto il mondo è adottato dal 1999 anche dalla catena franchising Lino’s Coffee (www.linoscoffee.com), che oggi conta 48 negozi in affiliazione. «La richiesta di un prodotto diverso dal solito è diffusa ovunque, da parte di consumatori di ogni età. Per avviare un negozio di 50 mq ci vogliono 90mila euro, fee d’ingresso 12.500 euro e 6.700 euro per la prima fornitura di merce. Consigliamo ai nostri franchisee di avere un bacino d’utenza di 10mila abitanti» osserva Osmide Ferrari, responsabile finanziario Lino’s Coffee.

La freschezza dell’idea di business ha, per gli aspiranti imprenditori, un duplice aspetto: da una parte la possibilità di differenziarsi dagli esercenti tradizionali, dall’altra la difficoltà nell’orientarsi in una nicchia ancora poco esplorata. Il primo passo sta nello scegliere la formula, in franchising oppure no. L’affiliazione per ora propone poche insegne specializzate in una “carta dei caffè”, tra cui compaiono anche marchi come ChiaroScuro (www.chiaroscuro.it) e Colonial Cafè (www.colonial-cafe.com).

Per chi punta a un negozio indipendente

Chi preferisce essere indipendente ha due chance: individuare un torrefattore con un ampio ventaglio di caffè monorigine (Leonardo Lelli, www.caffelelli.com, Evan Caffè, www.evancaffe.it…) oppure affidarsi a un produttore di aromi e preparati per caffetteria, da cui acquistare creme di vari gusti con cui impreziosire il sapore del proprio espresso. In entrambi i casi, la fantasia consente di moltiplicare le ricette a piacere, per ampliare quanto più possibile la carta degustazione. A questo punto si passa alla scelta della location, fondamentale per stabilire sia la tipologia di clientela (studenti, colletti bianchi…) sia gli orari di maggior flusso e la giusta declinazione dell’offerta. La ricerca di un locale in un punto a forte percorrenza include i quartieri in centri storici e la periferia, e non solo. «I centri commerciali e quelli direzionali si prestano all’attività. Stesso discorso per le aree prossime alle sedi universitarie, dove però è meglio includere nel menu anche panini o piatti per il pranzo e disporre di superfici più ampie» consiglia Ferrari.

L’investimento

I locali più piccoli sono disposti su 40 mq, a cui se ne aggiungono altri cinque per il magazzino: 80mila-100mila euro l’investimento iniziale per arredi, attrezzature, prima fornitura di merce… Attenzione a non lesinare troppo sulle spese: «I principali criteri di scelta dei clienti riguardano la qualità del prodotto, in aggiunta a servizio e piacevolezza dell’ambiente» avverte Savorgnani. A seconda della grandezza del negozio è necessaria la presenza di almeno due persone, e per loro vale sempre un avvertimento: data la novità del prodotto, il barman deve avere una buona capacità di relazione con il pubblico ed essere instancabile nel descrivere le ricette della carta caffè. «Nei primi tempi la gente pensava disponessimo di tutte le miscele dei maggiori torrefattori italiani. Ci siamo impegnati per chiarire la differenza tra miscele e caffè in purezza anche con corsi, che organizziamo ancora. Oggi il 60% della nostra clientela beve una delle varietà di caffè puro e il 30% consuma le nostre ricette» sottolinea Caroli. A seconda degli avventori si sceglie anche il tipo di arredamento (più moderno o tradizionale) e il tipo di merchandising con cui completare l’offerta: in aggiunta a confezioni dei caffè serviti nel locale si spazia tra tazze, caffettiere, cioccolate, marmellate e prodotti di pasticceria.

Perché si chiama “oro nero”

Molti definiscono il caffè come l’“oro nero” perché, a costi base all’esercente sui 0,15-0,20 euro, corrispondono prezzi al pubblico a partire da 0,70 euro. Puntualizza l’economista britannico Tim Harford in L’economista mascherato (Rizzoli, 8,60 euro): «Al prezzo di 1,88 euro un cappuccino di Starbucks (vedi box) è un mezzo furto, ma posso permettermelo perché guadagno il prezzo di quel caffè in qualche minuto. Non costa molto di più consumare una tazza più grande, usare uno sciroppo aromatizzato, aggiungere cacao in polvere o un ricciolo di panna montata, facendo pagare prezzi assai differenti (2,35 euro il white chocolate moka, 2,50 euro il cappuccino gigante) per prodotti che hanno, in fondo, lo stesso costo». Gli addetti ai lavori sono concordi nell’indicare la soglia di 150mila euro circa di fatturato come spartiacque per la copertura dei costi e il raggiungimento dell’attivo: 2,80-3 euro circa lo scontrino medio nelle coffee house. A chi pensa sia troppo alto, molti rispondono che il caffè è un piacere, se non è buono – e dunque anche costoso – che piacere è?

Licenza: ogni comune fa da sé

Primo passo: la “licenza”. Per aprire un’attività di somministrazione alimenti e bevande (bar, ristorante, pizzeria…), secondo la legge 287/1991 è necessaria un’autorizzazione rilasciata dal Sindaco del Comune dove ha sede il locale. Normalmente le autorizzazioni sono rilasciate in numero limitato, e per questo motivo il loro valore di mercato varia dalle decine di migliaia di euro nei centri più piccoli fino a 100mila euro e oltre nelle città più popolate. Ogni Comune però è autonomo in materia: in alcune località infatti non sono previsti tetti massimi oppure non sono ancora stati raggiunti i limiti di apertura, e così è possibile ottenere la licenza a costo zero. Altro requisito per l’avvio di un bar è l’iscrizione al Rec (Registro esercenti commercio), accessibile a chi ha conseguito il diploma di un corso professionale riconosciuto dalla Regione e ha superato l’esame di idoneità della Camera di commercio. È escluso dall’iscrizione al Rec chi in passato è stato dichiarato fallito da una sentenza in Tribunale. Infine, l’apertura del locale prevede l’autorizzazione da parte della Asl per i requisiti sanitari di legge.

Ecco perché Starbucks non è presente in Italia

Il caffè di Howard Schultz, amministratore delegato della catena Usa di caffetterie Starbucks, nata nel 1983, è un caso da manuale di marketing. L’intuizione di Schultz, che ora ha un patrimonio personale stimato in più di 800 milioni di euro, pare essere nata dopo un viaggio a Milano nel quale aveva assaggiato un espresso di qualità migliore del solito beverone all’americana. In linea con il gusto per la ricercatezza anche la proposta di locali confortevoli nell’arredamento e informali nei modi. Le ricette? Sono 55mila le variazioni di caffè, “frappucino” e altre ricette di Starbucks, e forse è proprio questa ricchezza nell’assortimento ad aver conquistato anche i divi di Hollywood: da Katie Holmes ad Ashton Kutcher.

L’ampiezza di gamma dà un’idea di lusso accessibile: poco importa, dunque, che fin da subito i prezzi fossero tre volte più alti rispetto a quelli della concorrenza. Ed è rimasta senza eco l’inchiesta del 2004 fatta dal Wall Street Journal che puntava il dito contro il pericolo di dipendenza della bevanda, dal quantitativo di caffeina molto maggiore di quello dei concorrenti. Per ora Starbucks è in tutto il mondo ma si tiene lontano dall’Italia: secondo il Financial Times, perché il suo doppio espresso (il singolo non è nel menu) costa due euro, dunque è poco competitivo, e i barman di Schultz sono più lenti di quelli italiani. Senza contare che negli ultimi tempi anche il colosso americano ha rallentato il passo: lo scorso febbraio l’azienda ha annunciato la chiusura di 900 negozi, un calo di vendite del 6% e la diminuzione degli utili. Qualcuno dice che il motivo sia la sostituzione della preparazione a mano con quella a macchina automatica, più veloce ma incapace di ingolosire i clienti perché non diffonde l’aroma di caffè nell’ambiente. Qualcuno invece dice che il rovescio di fortuna si debba al minor numero di broker finanziari in attività negli Usa, gente che lavora molte ore e ha bisogno di stare sveglia la notte per sorvegliare i listini della Borsa di Tokyo. INFO: www.starbucks.com, T. Clark, Starbucks. Il buono e il cattivo del caffè, Egea, 19 euro.

Nuovi mestieri: Io, il re degli assaggia caffé

Napoletano, 34 anni, di mestiere fa l’assaggiatore di caffè. Gennaro Pelliccia lavora a Londra per la Costa Coffee, catena di coffee house con un fatturato di 237 milioni di euro. È entrato nel Guinness dei primati per aver assicurato la sua lingua per quasi 12 milioni di euro. Ogni settimana assaggia 100 diversi tipi di caffè. «Ho iniziato 18 anni fa come barista, durante la pausa estiva dei miei studi in Ingegneria meccanica. Dopo la laurea, sono entrato in Costa come assistente del capo dei degustatori. Era il mio sogno» racconta Pelliccia a Millionaire. «Sono cresciuto a Napoli e fin da piccolo mi è stato trasmesso l’amore per il caffè. Ma poi ho lavorato duro. Ho allenato il mio gusto, imparando a distinguere tra migliaia di sapori diversi e individuando i difetti di ogni aroma. Nel 2004 ho preso il posto del mio maestro. Intraprendere nelle coffee house? Il caffè è una delle bevande più popolari al mondo: ci sarà sempre lavoro e fermento intorno al settore» conclude Pelliccia.

Maria Spezia,  Millionaire 05/2009

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