Gli italiani lo fanno meglio?

Di
Redazione Millionaire
22 Agosto 2012

Tempi duri per il Paese. Interi settori produttivi sono in crisi nera. Ma proprio qui operano e prosperano aziende coraggiose. Dalle loro strategie un esempio per tutti

Sì, gli italiani lo fanno meglio. In molti campi. Dallo sport allo spettacolo, dalla moda alla scienza. Lo dimostrano le storie dei personaggi fotografati in queste pagine. Ma nell’impreditoria?

A fine 2005, il periodico inglese The Economist intitolava con Addio, Dolce Vita un articolo sul declino economico dell’Italia.«Il suo ritmo di crescita degli ultimi 15 anni è stato il più basso di tutta l’Unione Europea. I costi sono aumentati e la produttività è scesa» si leggeva. Del resto, sulle scarse performance delle imprese italiane sembrano essere tutti concordi.

Il World Economic Forum (www.weforum.org) stila ogni anno un rapporto sulla situazione competitiva mondiale. L’edizione più recente vede l’Italia 47ª (meno 21 posti dal 2001, un crollo senza paragoni nell’ambito dei Paesi dell’Ocse). E ancora: nel rapporto Doing Business (www.doingbusiness.org), elaborato dalla Banca Mondiale per testare la facilità con cui è possibile mettersi in proprio, l’Italia occupa il 70° posto, a metà classifica, dopo Paesi come Zambia e Kenya.

E anche il Fondo monetario internazionale bacchetta l’Italia, puntando il dito contro «il costante peggioramento della competitività esterna». Problema, questo, che non è tanto da attribuire a fattori esterni quali l’apprezzamento dell’euro o la globalizzazione, quanto «fondamentalmente a cause proprie del made in Italy».

In effetti, era da tempo che le cose non andavano così male. Nel 2005 la bilancia commerciale con l’estero ha fatto registrare un deficit di dieci miliardi di euro (contro 1,22 del 2004). La produzione industriale è calata dell’1,8%, il dato peggiore dell’ultimo triennio. Le rilevazioni Istat fotografano un Paese in caduta libera, soprattutto nei settori del made in Italy, una volta trainanti. I comparti di punta hanno perso colpi: – 2,5% per i mobili; – 4,6% per gli apparecchi elettrici; – 6,5% per l’abbigliamento; – 7,7% per pelli e calzature. Prosegue The Economist: «L’economia italiana si è dimostrata molto vulnerabile nei confronti dei concorrenti asiatici, dal momento che molte piccole aziende specializzate in aree come il tessile, le calzature e i mobili hanno subìto il contraccolpo degli assalti dell’export cinese».

Oltre alla Cina, le imprese italiane devono fare i conti con il boom dei costi (caro petrolio in testa). E con una congiuntura economica negativa legata più in generale a Eurolandia. Anche se il presidente della Banca Centrale Europea Jean Claude Trichet è ottimista: «L’economia dei Paesi zona euro è in progressivo rafforzamento, e la crescita è confermata dai trend di medio termine».

Qualcosa si muove poi in soccorso alle aziende italiane “vittime” del dumping (vendita al di sotto dei prezzi di mercato, che sfocia nella concorrenza sleale): sono infatti in arrivo dazi doganali sulle calzature cinesi e vietnamite.

Ma il vero imprenditore sa di non poter aspettare la soluzione dall’esterno, come una manna dal cielo. Il vero imprenditore sa di dover trovare la soluzione all’interno della sua azienda. La sua inventiva e il suo coraggio devono essere più forti della contingenza economica, delle crisi settoriali, della sfiducia dei consumatori.

Fatti, non parole. Che emergono dalle storie che raccontiamo nelle pagine che seguono. Storie di imprenditori in grado di invertire le tendenze, salvare le aziende dal fallimento, tracciare nuove strade. Che poi seguiranno altri. Magari anche qualcuno dei lettori di Millionaire. Non c’è una ricetta unica. C’è chi abbandona la produzione in Italia e taglia i prezzi, e chi fa esattamente il contrario. Chi punta sul fattore umano e chi su una massiccia campagna promozionale. Ma queste storie dimostrano chiaramente che gli imprenditori improvvisati passano. Quelli veri restano. Al di là delle difficoltà, delle crisi di mercato, dei concorrenti agguerriti, dei costi alle stelle e dei margini risicati. Al di là di tutto. Perché gli italiani, quando vogliono, lo fanno meglio.

Prezzi bassi, alti rendimenti

La Teddy nasce nel 1961 e l’esperienza accumulata negli anni la fa diventare un punto di riferimento nel pronto moda in Italia. Il marchio Terranova (abbigliamento moda, unisex, rivolto ai 16-25enni) cresce, a partire dal 1987, grazie alla formula del network commerciale. «Questa si differenzia dal franchising perché non prevede royalty, fee d’ingresso o minimi d’acquisto. Anzi, noi diamo la merce in conto vendita, con la possibilità di restituire l’invenduto a fine stagione. Cerchiamo di facilitare il lavoro dell’affiliato, che consideriamo un grande patrimonio. Siamo consapevoli che, se gli affiliati guadagnano, tutto il gruppo si avvantaggia» illustra il direttore commerciale Pierluigi Marinelli.

Il momento critico l’azienda lo attraversa nel 2002, all’indomani dell’entrata in vigore dell’euro. «Il calo degli incassi è stato netto e molto preoccupante. L’insegnamento di questa crisi è stato, per noi, che il made in Italy non aveva più futuro. E che la strada da percorrere era quella della riduzione dei prezzi, vista la concorrenza spietata in atto. Noi li abbiamo dimezzati, raddoppiando il numero delle promozioni annuali (passate da sei a dodici). Da allora, non abbiamo mai più registrato un decremento delle vendite». Ma la rinuncia alla produzione in Italia (ora i capi vengono importati dai Paesi di volta in volta più convenienti) non implica un addio all’italianità. «Oggi tutte le grandi catene con cui ci confrontiamo, da Zara a H&M, si equivalgono sotto gli aspetti del contenuto moda, dei prezzi, delle materie prime e dei ricarichi. A fare la differenza è lo spirito che ci muove. Non a caso il sottotitolo di Terranova è: “Spirito italiano”. E questo si manifesta nell’atmosfera che si respira nei nostri negozi» prosegue Marinelli.

L’ascesa del marchio è travolgente: oggi Terranova conta 407 punti vendita in tutto il mondo. Ma non si ferma. «Facendo tesoro dell’esperienza e avendo notato un vuoto d’offerta, abbiamo creato la catena Calliope, che si rivolge a uomini e donne fra i 20 e i 50 anni. Lanciata a fine 2005, conta già 25 negozi monomarca in dieci nazioni e sette megastore Terranova&Calliope» prosegue Marinelli. Punti di forza della nuova catena rimangono i prezzi competitivi e la formula del conto vendita. Fondamentali, nel successo del gruppo Teddy, le aperture all’estero. «I Paesi in cui espanderci vengono scelti seguendo criteri diversi a seconda delle situazioni. A volte è la possibilità di rilevare dei negozi a prezzi favorevoli, a volte l’esistenza di redditi medio alti, altre volte ancora è la candidatura di potenziali affiliati intraprendenti a portarci in un Paese prima che in un altro» conclude Marinelli. I punti vendita Terranova incassano mediamente tra i cinque e diecimila euro al mq all’anno. L’investimento medio per aprire un negozio è di 500-900 euro al mq. A voler partire sono in tanti (almeno cinquemila all’anno), ma solo una minima parte diventano affiliati. Il gruppo Teddy ha fatturato 257 milioni di euro nel 2005 (+11% rispetto all’anno prima) e punta a superare i 310 milioni nel 2006.

Le arance rosse dell’Etna

L’azienda siciliana Pannitteri ha le sue origini nei lontani anni Sessanta, ma nasce ufficialmente nel 1980, con una struttura di tipo familiare. Il suo business è la coltivazione e la produzione di agrumi che si basa sulla lotta integrata. In sintesi: si tratta di limitare al massimo l’uso di fitofarmaci, per ottenere prodotti sì sani, ma anche privi dei piccoli inconvenienti dei prodotti biologici (il prodotto “come natura crea” subisce gli effetti delle intemperie e dei parassiti). L’azienda è una di quelle solide: dà lavoro a oltre 200 persone, produce 250 mila quintali di agrumi a stagione e coltiva un’area di 160 ha. Ma per fare il salto di qualità serve qualcosa in più. Racconta Orazio Laudani, che si occupa della comunicazione: «La necessità è quella che i consumatori siano in grado di riconoscere gli agrumi siciliani e la loro qualità. L’intuizione è quella di attribuire loro un nome, come già per altri frutti: la mela è Melinda, la banana è Chiquita. Abbiamo così pensato a Rosaria, l’arancia rossa dell’Etna». Il nuovo frutto nasce ufficialmente il 13 dicembre 2005. Ma alla Pannitteri sanno che senza una buona campagna stampa tutti gli sforzi fatti fino a quel momento rischiano di essere vani. Così si rivolgono a un’agenzia pubblicitaria di Roma, la Roncaglia & Wijkander (www.roncaglia.it) che studia il naming, il logo, la strategia di comunicazione e il piano mezzi su radio, stampa e televisione. Alla Pannitteri non aprono bocca sull’investimento pubblicitario sostenuto. Ma spiegano i motivi della campagna: «Lo sforzo economico è stato importante, ma era forte l’esigenza di far conoscere il prodotto. Gli aspetti che abbiamo tenuto a sottolineare sono: la qualità, le garanzie per i consumatori e i principi nutrizionali». Non certo casuale la scelta di Rosario Fiorello, siciliano doc, come testimonial radiofonico. E i risultati? «Sicuramente c’è stato un incremento di notorietà. Ma tutte le cose belle hanno bisogno di tempo. Ce lo insegna l’agricoltura» conclude Laudani.

Scarpe made in Italy

Una storia tutta italiana quella di Nero Giardini, azienda marchigiana nata nel ’75. La fonda Enrico Bracalente, insieme al fratello e a un altro socio. I tre, privi di esperienza, sperimentano sulla propria pelle i pro e i contro del fare impresa. Fino all’inizio degli anni Novanta lavorano sia per conto proprio col marchio Nero Giardini, sia per altri marchi anche a livello internazionale (e qui si concentra la maggior parte del business). A questo punto le forti difficoltà economiche suggeriscono un’inversione di tendenza. Lui prende le redini dell’azienda e inizia un processo che porterà, nel ’98, allo scioglimento della vecchia società e alla fondazione di una nuova, di cui Bracalente è l’amministratore unico.

Il nuovo patron punta in primo luogo sul prodotto, mantenendo in Italia il 100% della produzione. In secondo luogo, investe sullo strumento delle ricerche di mercato, per capire quali sono le mode e i gusti del pubblico. Un altro investimento fondamentale riguarda le risorse umane, con un deciso rafforzamento della forza commerciale propria. Ma, soprattutto, Bracalente individua la comunicazione pubblicitaria come il mezzo per far conoscere prima e sostenere poi il marchio Nero Giardini. E così l’azienda passa dalle poche pagine pubblicitarie sui giornali a un vero e proprio boom di visibilità: radio, affissioni, televisione. L’effetto mediatico è decisivo, ma non basta. «Fondamentale è stato aver tenuto duro sul made in Italy. Noi puntiamo a uno standard qualitativo alto, a fronte di un buon rapporto qualità-prezzo. I nostri prezzi, bloccati dal ’94, oggi sono compresi fra i 90 e i 150 euro. Da non trascurare neanche l’aspetto della distribuzione. Vendiamo in bei negozi di centri cittadini o commerciali e in boutique monomarca a gestione diretta. Attualmente, il grosso del mercato è in Italia, ora ci stiamo aprendo all’Europa. Il resto del mondo sarà terreno di conquista per i miei figli» prosegue l’imprenditore. Ma la ricetta per il successo include una componente ulteriore.

«Tutti parlano di crisi del settore, ma il made in Italy ha ancora grossi spazi. A patto di unire alle abilità nella produzione quelle di tipo commerciale» conclude Bracalente. Nero Giardini ha fatturato 66 milioni di euro nel 2005 e prevede di sfiorare il raddoppio quest’anno. La società impiega direttamente 180 persone e con l’indotto arriva a 500.

A qualcuno piace difficile

Che il 2005 sarebbe stato un anno difficile alla Sabaf lo sapevano. Ma in azienda non sono tipi da farsi spaventare, anzi. «Quando l’asticella del salto si alza, il gruppo si compatta. Per assurdo, io mi preoccupo di più quando le cose vanno bene, perché la tensione si allenta». A parlare così è l’amministratore delegato, Angelo Bettinzoli. E il fattore umano si è rivelato un elemento fondamentale per invertire la tendenza negativa: «Siamo dei sostenitori delle pari opportunità: il 43% dei nostri dipendenti sono donne. Investiamo costantemente in formazione e consideriamo una squadra unita un elemento fondamentale». Ma per superare il momento difficile del settore, la Sabaf ha seguito anche altre traiettorie. «Abbiamo cercato di migliorare l’efficienza produttiva, recuperando sugli acquisti e riducendo gli scarti. Tutto questo per contrastare il rincaro delle materie prime. In più, abbiamo impostato i rapporti con i nostri clienti più in un’ottica di partnership e collaborazione reciproca: concessione di sconti a fronte di forniture pluriennali. E ancora: abbiamo capito che è fondamentale investire su nuovi strumenti, macchine più performanti. E acquisire nuove aziende interessanti, per allargare il perimetro. Anche se in questo caso il rischio è quello di distogliere risorse da un mercato noto, lasciare il certo per l’incerto».

Ma quali sono i consigli per resistere, e prosperare, nel tempo? «In primo luogo bisogna essere in grado di gestire la situazione all’interno. Esternalizzare le funzioni può avere un vantaggio sul piano dei costi, ma fa perdere delle competenze e impoverisce l’azienda» conclude Bettinzoli. Nel 2005 la Sabaf, che ha fatto registrare ricavi per 121 milioni di euro, è in lieve crescita rispetto all’anno precedente.

«Strategia anticrisi? Produrre a Shangai»

Tutto comincia negli anni Sessanta, in una cantina di Brescia, quando Ennio Franceschetti ha l’intuizione di come si evolverà la tecnologia. E così, in controtendenza con la vocazione del distretto industriale in cui si trova (di tipo meccanico), comincia a sviluppare prodotti elettronici. Il boom dell’automazione gli darà ragione e propizierà il successo della Gefran, società di cui lui è tuttora presidente e azionista di maggioranza. Altra tappa fondamentale è lo sbarco a Piazza Affari, nel ’98. Spiega l’attuale amministratore delegato Alfredo Sala: «La quotazione in Borsa è stata fondamentale per raccogliere risorse che hanno permesso all’azienda di crescere, investire maggiormente in ricerca e sviluppo e aprire nuovi mercati all’estero».

Ma veniamo al 2005, anno piuttosto difficile per il settore. «Si faceva un gran parlare di recessione e la crisi era innegabile. Noi stessi siamo partiti in salita, facendo registrare, nel primo semestre, un calo dell’8% del fatturato. Il secondo semestre è andato bene, permettendoci di recuperare quasi totalmente il fatturato e far registrare utili in crescita» prosegue Sala. Ma cosa ha permesso alla Gefran di invertire la tendenza? «Qualche risparmio, certo. Ma soprattutto investimenti nell’area commerciale. La soluzione è all’estero, nei Paesi asiatici che hanno grossi potenziali di crescita. E così abbiamo aperto una nuova linea di produzione a Shangai. Essere presenti nei Paesi più dinamici – con strutture commerciali, produttive nonché personale del luogo – è l’unico modo per conquistare i mercati in ascesa, compensando il calo in altri Paesi» sintetizza Sala. «E’ importante mantenere il sangue freddo e non cambiare le priorità o la linea aziendale di fondo. Se gli affari vanno a rilento, non bisogna inseguire le vendite a tutti i costi, anche quando sono poco redditizie. Una politica aggressiva sui prezzi, con sconti esagerati, può non essere la soluzione giusta. Meglio investire in rapidità ed efficienza: aumentare il numero di visite ai clienti, ridurre al minimo i tempi di consegna» conclude Sala. Oggi la Gefran ha scelto di operare solo in alcuni segmenti del settore dei beni industriali, è presente in vari Paesi (con strutture commerciali e/o produttive), impiega 700 persone e ha fatturato 100 milioni di euro nell’ultimo anno.

Toglietemi tutto, ma non i miei ciondoli

Siamo ad Arezzo, distretto industriale noto per la lavorazione dell’oro. La Rosato nasce nel 2001 e, nei suoi pochi anni di vita, raggiunge grandi successi. Oggi è una realtà solida: fatturato di 49 milioni di euro nel 2005 (+25% rispetto all’anno precedente) e una forza lavoro che ammonta a 137 persone. Ma come ci è riuscita, a dispetto di una crisi economica che penalizza i beni voluttuari? «Mio marito Riccardo Borghesi e io lavoriamo da vent’anni nel settore. Inoltre, veniamo dall’esperienza, di successo, di una precedente azienda, che abbiamo portato da tre a 70 dipendenti e a 50 milioni di fatturato. Dalla nostra anche una notevole esperienza di esportazioni nei mercati esteri (Giappone, Cina, Stati Uniti). Poi, dopo aver acquistato un’azienda di produzione, abbiamo deciso di puntare su un prodotto moda. Nasce così la linea bags&shoes: ciondoli in oro giallo e smalto, realizzati a forma di scarpe e borse, gli accessori più amati dalle donne. In quel momento, l’oro era un po’ decaduto, soppiantato in parte da bigiotteria in altri materiali, fra cui l’acciaio, che si definivano gioielli. Noi abbiamo riportato l’oro in primo piano, con lo slogan “Gold is glam”. Inoltre abbiamo utilizzato lo smalto, anch’esso al momento considerato fuori moda. Ma un imprenditore deve creare le tendenze, non seguirle» illustra Simona Rosato. Con la nuova linea, dal 2004, l’azienda ottiene una grande riconoscibilità. «I gioiellieri ci danno subito fiducia, perché capiscono che dietro al prodotto c’è anche una filosofia. Adesso abbiamo 800 punti vendita, solo in Italia, e puntiamo ad arrivare a 1.500. L’intuizione è quella che il gioiello non è più legato solo alle occasioni importanti, ma diventa un gioco, un divertimento. E così la nostra linea dà la possibilità di personalizzare, cambiare. Anche i prezzi sono abbordabili: un ciondolo costa 200 euro; un bracciale con cinque ciondoli, 1.500. Diffuso anche il collezionismo» afferma l’imprenditrice.

L’azienda, già forte all’estero (negli Usa si pubblicizza con uno show tv dedicato al made in Italy), si sta affermando anche in Italia, dove avviene tutta la sua produzione e dove realizza il 40% del fatturato (con una crescita che nel 2005 è stata del 110%). Le sue armi: l’investimento in ricerca e sviluppo (250 mila euro all’anno), il buon rapporto sviluppato col personale (è stata la prima azienda orafa ad aver ottenuto la certificazione etica SA 8000) e lo sforzo promozionale. «Abbiamo scelto Demi Moore come testimonial, per le sue doti camaleontiche. Ogni donna trova in lei l’aspetto che preferisce (sexy, dolce, aggressivo…). E il fotografo Mario Testino è riuscito a dare di lei un’immagine invitante e non austera. L’investimento pubblicitario, compreso il testimonial, è ammontato a due milioni di euro» conclude Simona Rosato.

7 consigli

Ecco alcune strategie per risalire la china in momenti difficili

1) Prendi atto del problema.

Le vendite calano? I costi lievitano? La quota di mercato declina? Se il fenomeno perdura, bisogna ammettere che non si tratta di un’oscillazione passeggera.

2) Capisci perché.

Di fronte al problema, si cercano i fattori scatenanti. Concorrenza da parte dell’Oriente? Aumento dei costi delle materie prime? I fattori esterni vanno messi in fila, alla ricerca di contromisure. Per annullarne (o attutirne) gli effetti.

3) Guardati dentro.

A parità di fattori esterni, i concorrenti vanno meglio? Allora c’è un problema anche dentro l’azienda. E nella sua risposta al contesto di mercato.

4) Punta sugli uomini.

Le persone che lavorano in azienda sono fondamentali sempre, ma ancor di più in momenti di crisi. Se le cose vanno male, bisogna in primo luogo essere chiari con i collaboratori. Poi sollecitare pareri, senza smettere di investire in motivazione e formazione.

5) Trasforma i clienti in partner.

Sono in crisi anche i clienti, che comprano meno. Una strategia può essere quella di proporre una politica di fidelizzazione: forti sconti a fronte di contratti di fornitura pluriennali. Vietato buttarsi via, inseguendo vendite sterili e sottocosto.

6) Fa’ qualsiasi cosa, ma falla meglio.

Prezzi stracciati con un prodotto allineato al mercato. Made in Italy a tutti i costi, per aggredire una nicchia. Grosso battage pubblicitario per affermare il proprio marchio. Espansione su mercati esteri. Crescita attraverso il franchising. Scelta di un prodotto innovativo o di un testimonial famoso. Può funzionare tutto e il contrario di tutto. A patto di non perdere di vista la propria singolarità.

7) Pensa a domani.

Il futuro è delle imprese “etiche”, quelle che sanno conciliare profitto e funzione sociale, affari e tutela dell’ambiente, innovazione tecnologica e soddisfazione dei dipendenti.

Lucia Ingrosso Millionaire 04/2006

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