Gli armadi europei e americani sono ormai un simbolo di un consumismo fuori controllo: stracolmi di abiti poco usati o mai indossati, con scaffali pieni e barre che flettono sotto il peso. Ogni settimana, l’americano medio acquista almeno un nuovo capo (in Europa non va molto meglio), contribuendo a un accumulo che, alla fine, aumenta i rifiuti destinati alle discariche. Ma esiste un lato positivo: negli ultimi anni, sempre più persone, soprattutto le nuove generazioni, stanno riscoprendo la moda vintage e l’abbigliamento usato.
Il vintage: un mercato in crescita e una risposta alla fast fashion
Mentre l’abbigliamento nuovo è sempre più abbondante e accessibile, ma anche più monotono e ripetitivo, cresce il fascino per i capi unici e originali. Per molti under 40, il vintage rappresenta una forma di espressione personale, una reazione ai diktat imposti dalla moda e un’alternativa alla produzione in serie di fast fashion. Complici la pandemia e una maggiore sensibilità verso l’ambiente, il mercato del second-hand è cresciuto sette volte più velocemente di quello del nuovo, con un valore stimato di 43 miliardi di dollari e previsioni di crescita dell’11% annuo fino al 2028. Questi numeri stanno spingendo anche i brand più tradizionali, come Levi’s, Lululemon e Patagonia, a entrare nel settore dell’usato, trasformando la rivendita in un settore che non è più di nicchia.
Modelli di business: l’offerta delle piattaforme di rivendita
La crescente domanda di abbigliamento usato ha attirato diverse startup con piattaforme di rivendita che puntano a colmare il divario tra domanda e offerta. Il settore è variegato: da The RealReal e Vestiaire Collective per i clienti di lusso, a Poshmark e ThredUp per il mass-market, passando per StockX e Grailed per i cultori dello streetwear, fino a Depop, preferita dagli amanti del vintage. Queste piattaforme puntano a offrire un’esperienza diversa dai negozi dell’usato tradizionali, con una selezione vasta e di alta qualità, posizionandosi come una valida alternativa sostenibile alle catene di fast fashion. Le piattaforme di rivendita rappresentano quindi un’opportunità di business promettente per chi sa intercettare la richiesta di un mercato sempre più attento all’etica e all’unicità.
Tuttavia, come riportato da Bloomber BusinessWeek gran parte del mercato dell’usato non passerebbe da queste piattaforme, bensì dal canale ‘charity’ ovvero delle donazioni a negozi gestite da organizzazioni non profit.
La sfida della redditività: un business insostenibile?
Tuttavia, la sostenibilità economica del settore è ancora incerta. Molte piattaforme di rivendita non hanno dimostrato di poter garantire profitti costanti, soprattutto a causa dei costi elevati e della competizione con i prezzi bassi della fast fashion. Il business della rivendita presenta due modelli principali:
Modello con inventario: piattaforme come The RealReal e ThredUp trattengono i capi presso i loro magazzini, offrendo maggiore qualità e velocità nel servizio. Tuttavia, questo modello richiede risorse significative per gestire e immagazzinare l’inventario, con costi per la catalogazione, la fotografia e la spedizione. Inoltre, le piattaforme che trattengono inventario devono spesso accettare prodotti invendibili o non adatti alla rivendita, che finiscono in giacenza o vengono svenduti all’ingrosso. Questo approccio genera così rifiuti, vanificando in parte la sostenibilità del modello.
Modello peer-to-peer: piattaforme come eBay seguono un modello “asset light”, lasciando ai venditori il compito di gestire foto, spedizione e descrizione dei prodotti. Sebbene più economico, questo approccio risente dei margini ridotti del settore dell’usato, reso ancora meno profittevole dalla presenza di capi di fast fashion a prezzi estremamente bassi e di bassa qualità. L’invasione della fast fashion rappresenta una minaccia anche per il second-hand: sempre più capi di qualità inferiore arrivano sul mercato dell’usato, ma sono poco rivendibili, contribuendo alla saturazione del settore.
Innovazioni come Croissant: un cambio di paradigma
Alcune piattaforme, come Croissant, stanno cercando di reinventare l’usato, offrendo una garanzia di riacquisto per i prodotti appena acquistati. Grazie all’IA, Croissant calcola il valore di rivendita di un capo ancora da acquistare, proponendo agli utenti di scegliere articoli più costosi con la sicurezza di poterli rivendere in futuro. Questo approccio, sebbene innovativo, non risolve la sfida del settore, che deve fare i conti con costi elevati e margini ridotti.
Greenwashing e vero impatto ambientale
L’espansione del mercato dell’usato pone anche questioni etiche. Molti brand tradizionali promuovono la rivendita come una strategia di sostenibilità, ma il rischio di greenwashing è evidente. Per molte aziende, l’usato è un modo per migliorare l’immagine aziendale senza ridurre veramente la produzione. Continuare a produrre a ritmi elevati, contando sul second-hand come “valvola di sfogo” per gli eccessi, non fa che perpetuare il ciclo di sovrapproduzione e spreco. Il second-hand dovrebbe rappresentare un’alternativa alla produzione in eccesso, non una scusa per giustificare modelli insostenibili.
Il second-hand può essere un’opportunità per un consumo più responsabile, ma la sua sostenibilità a lungo termine è legata a un cambio di mentalità che riduca il ritmo di produzione e favorisca la qualità sulla quantità. Solo limitando l’invasione di capi di bassa qualità e incoraggiando i consumatori a fare acquisti consapevoli, il mercato dell’usato potrà svilupparsi in modo realmente sostenibile. Se l’industria della moda non adotta un cambiamento autentico, il rischio è che il mercato del second-hand diventi semplicemente l’ennesima estensione del consumismo sfrenato.
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