Tiger: storia del fondatore che ha creato un impero da zero

Di
Tiziana Tripepi
22 Dicembre 2016

A 20 anni vendeva ombrelli usati nei mercatini a Copenhagen. A 36 ha fondato il suo primo negozio. Due anni fa Lennart Lajboschitz, 56 anni, ha venduto il 70% di Tiger a un gruppo di private equity, ma ancora guida l’azienda. Il mio segreto? «Osservo, viaggio, guardo i giovani: così posso innovare»

56 anni, danese, è il fondatore della catena di negozi Tiger: oggetti divertenti per gli usi più disparati. In 20 anni ha costruito un impero con più di 500 negozi in 27 Paesi. Si è fatto da solo, senza aver frequentato né università né business school, senza alcuna formazione in gestione o finanza. La sua scuola è stata la strada e l’esperienza che ha accumulato nella vita. «Il periodo più formativo della mia vita è stata la mia infanzia» ha raccontato. «Quando ero piccolo, ciò che si insegnava ai bambini in Danimarca era di avere fiducia in se stessi. In famiglia la sera ci sedevamo intorno a un tavolo per parlare del mondo: i miei genitori mi incoraggiavano a fare domande e a prendere seriamente i miei punti di vista».

Lascia la scuola per conoscere il mondo.

Figlio di un ebreo polacco che vendeva asparagi al mercato e di una maestra d’asilo svedese, Lennart (così lo chiamano tutti) è nato e cresciuto a Copenhagen nel periodo in cui la Danimarca stava gettando le basi della moderna socialdemocrazia. A 16 anni lascia la scuola e incomincia a viaggiare, finanziandosi con qualsiasi cosa: vende fumetti, fa il fotografo, allena una squadra di ping pong. A 20 anni incontra la sua futura moglie, Suz. Per due mesi, zaino in spalla, continuano a girare insieme, poi ritornano in Danimarca. Qui iniziano a guadagnarsi da vivere riparando ombrelli rotti e vendendoli al mercatino delle pulci. «Il mercatino è stato un’esperienza molto importante, perché mi ha fatto immergere nella realtà».

L’idea del prezzo fisso nasce per caso. Quando nasce il primo figlio, Lennart e Suz aprono un negozio per vendere articoli a prezzo scontato. Lo chiamano Zebra. Poi aprono un pop up store. Un giorno vanno in vacanza e affidano questo secondo negozio alla fidanzata del fratello di Lennart, che li chiama disperata perché non riesce a trovare i prezzi delle cose. Lennart le suggerisce di prezzarle tutte a 10 corone (l’equivalente di un euro), che in slang danese si dice tier. Da qui nasce l’idea del nome Tiger, il cui suono ricorda appunto quello di “10 corone”. È il 1995.

Il Tiger touch. Se la prima idea di Tiger è stata quella di acquistare oggetti dai fornitori e rivenderli a 10 corone così com’erano, dopo qualche tempo a Lennart viene un’altra idea: trasformare quei prodotti in maniera originale e creare un brand. Per esempio disegnare dei baffi su una tazza bianca o rivestire una normale calcolatrice con un piede di gomma. «Il successo è stato immediato» ha dichiarato Lennart. «I margini di profitto sono aumentati d’un colpo del 50%». Si chiama Tiger touch. «Quello che sappiamo fare meglio è prendere un oggetto funzionale e trasformarlo in uno emozionale». È così che Lennart e Suz aprono un secondo negozio, poi un altro e un altro ancora… in tre anni sono 40 i negozi in Danimarca.

«La gente pensa troppo a quello che può andare male. Se su 10 cose che si fanno, 8 non hanno successo, non è contenta. Invece io sono contento se 2 sono andate bene. Il resto è esperienza».

Oggetti divertenti e a buon mercato. «Gli articoli che vengono acquistati (più della metà da fornitori cinesi, un terzo danesi, ndr) sono scelti dal nostro buying team in collaborazione con i designer, che dovranno poi modificarli» dice Tina Schwartz, direttore marketing di Tiger. «Ogni settimana introduciamo 300 nuovi prodotti, lavoriamo a un ritmo molto veloce grazie a un’organizzazione piatta e informale».

Sono un antropologo, non un businessman. Lennart, cestino al braccio, visita spesso i negozi Tiger. «Non voglio stare in ufficio. Devo vedere i prodotti, capire come sono valutati dai clienti» ha spiegato alla Cnn. Monitora continuamente i cambiamenti nei desideri del consumatore, per adattare i prodotti di conseguenza. «Non mi considero un businessman, ma un antropologo» continua. «Ascolto molto i miei figli che hanno tra i 18 e i 29 anni, ascolto la gente, viaggio molto. Devo capire quello che succede perché so che devo cambiare ogni giorno. Solo così posso innovare».

Non più Ceo, ma direttore creativo. Nel 2012 Lennart ha venduto il 70% di Tiger a Eqt, un fondo svedese di private equity, per una cifra (non uffi ciale) di 134 milioni di euro. Non è più Ceo ma direttore creativo, mantiene comunque il timone del business. «Conduco la stessa vita di prima. Mangio le stesse cose, mia moglie si sente in colpa quando prende un taxi. In Danimarca lo status sociale non dipende dalla ricchezza. Se mi guardo indietro, mi rendo conto che ciò che ha significato di più per me sono mia moglie e i miei figli. Spero succeda anche ai miei clienti. Con i miei prodotti cerco di fare in modo che la gente si incontri, mangi insieme e magari faccia dei bambini…».

INFO: www.tiger-stores.it

Questo è un estratto dell’articolo pubblicato su Millionaire di dicembre/gennaio.

Tiziana Tripepi

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