A tu per tu con Martin Lindstrom, guru del marketing, tra le 100 persone più influenti del mondo secondo Time (2009) e tra i migliori pensatori nella classifica di Thinkers50.
«Sono cresciuto in Danimarca, da bambino avevo una grande passione: i Lego. Ho dormito su un letto di mattoncini che avevo costruito. Ho trasformato il giardino di casa nel mio Legoland e l’ho aperto ai visitatori quando avevo 12 anni». Inizia così l’intervista con Martin Lindstrom, guru del marketing, tra i pensatori più influenti del Pianeta. Nella sua carriera ha lavorato per Microsoft, Pepsi, Burger King, Lego, Google. Le sue teorie più innovative riguardano neuromarketing, small data, marketing sensoriale. Nel 2000 ha fondato Lindstrom Company, gruppo per la trasformazione di business, brand e culture organizzative, attivo in oltre 30 Paesi e 5 continenti. Eppure tutto è nato per gioco.
«A 14 anni ho avviato la mia agenzia pubblicitaria e, sì, avevo Lego come cliente. I visitatori numero 130 e 131 del mio parco erano due avvocati della Lego. Volevano farmi causa. Mi hanno assunto. Così sono entrato nel pazzo mondo di branding, marketing e advertising. La mia esperienza con Lego mi ha aiutato a vedere il mondo dal punto di vista dei clienti. E ho mantenuto sempre quella prospettiva».
Lindstrom è autore di diversi bestseller, finiti nella classifica del New York Times. I suoi 8 libri sono stati tradotti in 60 lingue. L’ultimo, Il Ministero del buon senso. Come eliminare lungaggini burocratiche e follie organizzative dalla vostra azienda (Hoepli), è un manuale pratico per riportare il buon senso nelle imprese.
Ci fa un esempio di mancanza di buon senso in azienda?
«Sono su un volo diretto in Svizzera. A metà del viaggio, sull’aereo distribuiscono moduli che servono a tracciare i passeggeri in caso ci siano infetti. Nessun passeggero ha una penna. Il personale di cabina ne ha una. Che viene fatta girare dalla fila 1 fino alla 37. La compagnia deve assicurarsi in modo sistematico che tutti gli 87 passeggeri compilino il modulo, che ogni contatto possa essere tracciato… Ah, tutti abbiamo appena toccato la stessa penna! Il buon senso (in inglese common sense, ndr) non è poi così comune».
«La mancanza di buon senso è diventata una “pandemia” di proporzioni record, che paralizza fino al 45% della produttività nelle grandi aziende»
È un problema solo per le grandi aziende?
«Nelle piccole realtà imprenditoriali, è diverso. C’è una correlazione tra buon senso ed empatia, ovvero la capacità di mettersi nei panni di un altro e sentire ciò che quella persona sta provando. Le startup hanno più empatia quindi più buon senso».
Perché?
«Un esempio: alcuni anni fa due ragazzi fumavano erba nel loro dormitorio. Scattano foto e le caricano sui social. Il giorno dopo scoppia il caos e un amico dice all’altro: “Quanto vorrei ritirare le foto”. Da quell’idea è nata Snapchat, oggi azienda da 50 miliardi di dollari. Tutto è iniziato con l’empatia, poiché i fondatori hanno provato quell’imbarazzo. Il problema è che man mano che un’azienda cresce, aumenta anche il numero di avvocati, addetti a compliance e regole, i fondatori vengono messi da parte. E l’empatia svanisce insieme al buon senso».
Quali sono le conseguenze?
«La produttività diminuisce. Il morale si abbassa e la cultura aziendale si dissolve. La mancanza di buon senso provoca inutili attriti con i consumatori, nuoce alla soddisfazione del cliente, danneggia il brand e di conseguenza fa male al bilancio».
Perché le aziende non se ne accorgono o non intervengono?
«Innanzitutto perché, come si dice, “non puoi vedere la foresta dagli alberi”. Quando entri in un’azienda, ti unisci a una specie di tribù, ne sposi filosofia, mentalità, norme, regolamenti, perdendo sempre più visione e oggettività. Sei troppo coinvolto. Lentamente la tua prospettiva cambia: non vedi più il mondo dall’esterno verso l’interno, ma dall’interno verso l’esterno. Il secondo motivo è la “Sindrome della Gabbia per Polli”».
Che cos’è?
«Anni fa è stato condotto un esperimento. Un team di ricercatori ha messo dei polli in gabbia per 6 mesi e poi li ha lasciati liberi. Dopo 30 secondi i polli tornavano in gabbia. È la “paura dell’ignoto”. Non importa quanto logiche possano essere le cose o sia stupida la realtà, la sicurezza psicologica blocca il cambiamento e fa sparire il buon senso».
Come si supera la paura?
«Immagina 4 gabbie attorno a uno spiazzo, tutte con i cancelli aperti. Dove metteresti il mais per attirare i polli? Al centro? Se lo metti lì, lontano dalle gabbie, nessuno avrà il coraggio per un cambiamento così importante. Dovresti metterlo invece appena fuori dalla gabbia. È quello che, nelle imprese, chiamo “Intervento da 90 giorni”: piccoli passi legati a risultati immediati. Ogni passo darà ai membri del gruppo il segnale che il cambiamento è possibile, attirando gli altri sempre più lontano dalla gabbia, verso una mentalità del buon senso».
Cosa potremmo fare nel nostro giornale?
«Per un mese scattate foto delle mancanze di buon senso, per visualizzare i problemi. A ognuna aggiungete una descrizione. Scegliete il problema più facile da risolvere, con un impatto elevato. Risolvetelo in 90 giorni. A ogni obiettivo raggiunto, festeggiate. Così l’azienda dà il segnale che il cambiamento paga, aprendo la strada a un altro round e spostando il “mais” un passo più lontano dalla gabbia».
Come migliorare in smart working?
«Parti da una valutazione dei tuoi compiti quotidiani. Con il Covid-19 tutto è cambiato. È il momento migliore per “fare una pulizia” nella tua lunga lista di cose da fare. Analizza tutte le attività quotidiane e classificale in 4 categorie: Elimina, Parcheggia, Migliora, Conserva. Molte cose finiranno in Elimina. Questo ti aiuterà ad “andare avanti al lavoro”».
Un consiglio ai più giovani?
«Non lasciate che la scuola vi schiacci, inseguite i vostri sogni e fallite duramente. Ogni fallimento da giovane sarà un fallimento in meno quando crescerete».
Tratto da Millionaire di aprile 2021.