Da oltre 10 anni la mia impresa é 100% ‘fully remote’ e me ne pento. Perché?

Di
Marco Fontana
22 Ottobre 2024

Intervista (vera) a Marco Rossi (nome di fantasia), fondatore di una società di consulenza tecnologica, che ha deciso di rendere la sua azienda completamente ‘remota’ oltre dieci anni fa. Oggi si pente di quella scelta e ci spiega perché.

Marco preferisce non dichiarare il suo vero nome. Per quale ragione? Dopo anni da datore di lavoro pionieristico, collaboratori e sindacato si sono accorti che la sua era una sorta di eccezione. Contratti di lavoro firmati troppo tempo prima che si parlasse di smart working o lavoro in remoto gli si sono ritorti contro. A volte quando sei ‘troppo avanti’ arriva qualcuno a tirarti indietro.

 

Marco, hai fondato la tua azienda di consulenza tecnologica oltre 10 anni fa, e sei stato tra i primi in Italia a fare il salto verso una struttura completamente virtuale. Puoi raccontarci come è iniziata questa avventura?

Sì, tutto è cominciato dopo la crisi del 2008/2010. A quell’epoca, lavoravo con mio padre, che era anche il mio socio in affari. Avevamo un piccolo ufficio appena fuori Milano, e cinque dipendenti. Purtroppo, quando mio padre è venuto a mancare all’improvviso, mi sono trovato da solo in quell’ufficio. I miei collaboratori lavoravano per lo più da casa o direttamente dai clienti, quindi alla fine ho deciso di chiudere l’ufficio e trasformare la mia azienda in una realtà completamente virtuale. All’epoca sembrava la scelta più logica.

Allora sembrava una decisione sensata dal punto di vista economico?

Esatto. Non dovevo più pagare l’affitto, le bollette, il telefono fisso. Ho sostituito tutto con uno dei primi sistemi telefonici virtuali, e così abbiamo continuato a lavorare. Addirittura, per un periodo ho tenuto un server nel seminterrato di casa mia e i miei collaboratori si collegavano da remoto. Col tempo, siamo passati a utilizzare applicazioni cloud e ho eliminato tutte le spese superflue. A livello di margini e costi, l’azienda funzionava bene. Tuttora, la nostra gestione dei costi è molto efficiente.

Nonostante questi vantaggi economici, hai detto che te ne sei pentito. Cosa ti ha fatto cambiare idea?

Mi sono reso conto che, dal punto di vista umano e organizzativo, questa struttura non funziona. Dirigo un’azienda che, sinceramente, mi sembra la più disfunzionale d’Italia. Vedo i miei dipendenti solo attraverso Zoom, e a volte nemmeno lì, dato che molti non accendono neanche la telecamera. I miei collaboratori non si conoscono tra loro, non conoscono veramente nemmeno me. Siamo praticamente degli estranei che lavorano per la stessa azienda, ma senza alcun legame personale.

Hai provato a creare occasioni di socializzazione o di incontro?

Sì, ho organizzato eventi aziendali, feste di Natale, cene… ma tutti questi tentativi sono falliti. Ultimamente ci siamo rivolti anche ad aziende che, con periodi di lavoro congiunto in località anche spettacolari, promettevano di aiutarci a creare quel senso di appartenenza (un bell’investimento per un gruppo che ora conta diverse decine di persone), eppure… niente. Tutto posticcio e pesante. Quando qualcuno si presenta, non si riconoscono nemmeno. Si conoscono solo per nome o attraverso qualche rara conference call. Lavorano tutti indipendentemente sui propri progetti e non sentono il bisogno di socializzare. Nonostante questo, il turnover è basso, perché la maggior parte dei miei dipendenti ama la propria autonomia e preferisce lavorare da sola, senza interferenze. Però, alla fine, siamo tutti dei “misfits”, persone che non appartengono a nessun vero gruppo.

Pensi che la distanza fisica influisca anche sulla produttività e sull’innovazione?

Assolutamente sì. È difficile gestire un team virtuale. Non sai mai davvero cosa sta succedendo. Non puoi essere sicuro di quanto siano produttivi i tuoi dipendenti, perché non li vedi lavorare. Devo fidarmi che facciano ciò che dicono di fare, ma spesso mi chiedo se non potrebbero fare di più. Non abbiamo la possibilità di condividere idee spontanee, non c’è lo spazio per il brainstorming creativo che può nascere solo da una conversazione faccia a faccia.

E poi, c’è la questione del legame umano. Non ci interessa granché l’uno dell’altro, ma è normale: non c’è modo di creare una connessione autentica con qualcuno che vedi solo tramite uno schermo e con cui non parli mai di altro che di lavoro.

Pensi che il lavoro da remoto abbia limitato anche la tua capacità di essere un buon leader?

Decisamente. La mia leadership è molto limitata. I miei collaboratori mi conoscono solo tramite email e riunioni su Zoom. Non posso fare battute, non posso raccontare storie o motivarli come vorrei. Le nostre riunioni sono sempre formali e veloci, senza spazio per costruire un rapporto umano. È come gestire un’azienda fatta solo di numeri e di compiti da completare, senza la componente emotiva e relazionale che invece è essenziale per creare un ambiente di lavoro stimolante e positivo.

Hai trovato difficoltà anche nel reclutare nuovi talenti?

Sì, perché nonostante tutto l’entusiasmo per il lavoro da remoto, molte persone preferiscono ancora la vita d’ufficio. Soprattutto i giovani, eppure sui media si legge tutt’altro.  Amano l’idea di vedere colleghi, scambiare due chiacchiere e cambiare ambiente, anche solo per uno o due giorni alla settimana. Molti si sentono isolati a lavorare tutto il giorno da casa. Le aziende che possono offrire un ufficio, anche solo come opzione, sono molto più attraenti per questi candidati. Io, invece, non posso offrire questa flessibilità.

Nonostante tutto, la tua azienda è comunque redditizia. Quali sono i tuoi pensieri in proposito?

Sì, siamo redditizi, ma spesso mi chiedo quanto potremmo fare di più se non fossimo completamente virtuali. Con un ufficio, ci sarebbe maggiore collaborazione, condivisione di idee e un senso di appartenenza più forte. Sono convinto che vedersi faccia a faccia darebbe ai miei collaboratori un maggiore senso di scopo, il che si tradurrebbe in più produttività e, di conseguenza, in una maggiore redditività.

In qualche modo posso dire che mi manca l’azienda per come l’aveva concepita mio padre.

Hai mai considerato l’idea di aprire nuovamente un ufficio?

A volte ci penso, ma alla mia età sarebbe un cambiamento troppo grande. Inoltre, credo che molti dei miei dipendenti lascerebbero l’azienda se imponessi loro di tornare a lavorare in ufficio dopo tanti anni di lavoro da casa. Ho preso questa decisione tanti anni fa, e ora devo convivere con le sue conseguenze. Ma non è una scelta che consiglierei a chi sta pensando di rendere la propria azienda virtuale.

Mi correggo, consiglierei di non concepire l’azienda come 100% fully remote, ma con soluzioni ibride che permettano a tutti di avere un inserimento di alcuni mesi in azienda e poi gradualmente aperti al lavoro da remoto, ma sempre con un minimo di presenza in ufficio. Una sorta di cordone ombelicale umano a chi condivide con te la missione aziendale.

Marco, dopo oltre dieci anni da quando hai fatto questa scelta. Qual è il tuo consiglio per gli imprenditori di oggi?

Non lo farei di nuovo. Aprirei un ufficio, anche piccolo, per mantenere un punto di incontro. È importante avere un luogo fisico dove le persone possano vedersi, parlare e condividere idee. L’isolamento può sembrare efficiente dal punto di vista dei costi, ma alla lunga rischia di compromettere il legame tra le persone e, alla fine, anche il successo dell’azienda.

Un ultimo consiglio, purtroppo in Italia anche le migliori intenzioni si schiantano con le incomprensioni e piccole disonestà (intellettuali) dei collaboratori e anche del sindacato. Raggiunti certi volumi mi sono ritrovato ad avere a che fare con ‘rimostranze’ interne di chi, pur da sempre collaboratore remoto, contrattualizzato come tale e felice di esserlo, dopo pochi anni si è ritorto contro l’azienda per tramite del sindacato. Alcuni aspetti che i contratti nazionali non prevedono vanno persino contro quanto a parole tutti dicono di abbracciare, fin quando non ci sono altre pretese e un avvocato furbo (spesso del sindacato) pronto a cavalcare ogni scusa. E la prudenza legale (e non solo) sembra non essere mai abbastanza.

 

 

 

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