La provocazione, basata su oltre 20mila interviste, circa le dinamiche non sempre naturali della mentorship.
I giovani che entrano in azienda hanno, da sempre, grandi aspettative e molta impazienza di crescere. Tutti si aspettano un supporto, un percorso di carriera ben tracciato e facilitato, per quanto l’azienda potrebbe avere piani diversi e il bisogno di rendere il loro lavoro produttivo, visto che hanno un costo. Talvolta è anche solo un problema di trovare colleghi senior disposti a fare da mentor senza sentiti zavorrati nel loro lavoro e percorso di carriera.
Come se le cose non fossero sufficientemente complicate, negli ultimi anni si impone l’evidenza che tra le nuove ‘reclute’ la c.d. ‘carriera’ non sia nemmeno la stessa per come concepita dai loro fratelli maggiori o genitori. Sempre di più la crescita professionale non è identificata solo come aumento di salario, promozione etc. bensì come spazio per qualcosa di diverso, libertà e flessibilità – che talvolta prende di sprovvista l’azienda che sarebbe naturalmente portata a premiare chi è già produttivo e ha dimostrato di saper portare risultati.
La provocazione di ‘Working It’
Isabel Berwick, l’autrice del podcast ‘Working It’, pubblicato per il Financial Times, si è calata in questo esperimento partendo dal processo di selezione del personale basato sull’intelligenza artificiale fino alla ‘pratica’ aziendale.
Il primo ‘scontro’ emerge proprio nel processo di selezione. L’intelligenza artificiale, che dovrebbe aiutare aziende e candidati, ha generato anche l’effetto collaterale di aumentare a dismisura i cv generati e ricevuti dalle imprese. Se la tradizionale lettera di presentazione e cv viene replicata e personalizzata con un semplice click è più semplice mandare centinaia di cv. Lo stesso LinkedIn offre un buon esempio. Per ogni posizione aperta si ricevono centinaia di curricula che raramente sono attinenti.
Le aziende rispondono con la stessa arma, ovvero con filtri iniziali che utilizzano l’intelligenza artificiali. Qui il primo corto circuito dal quale non emerge quello che veramente vogliono le parti.
Working It si è rivolta ad un’esperta, Chloe Combi, che ha svolto una ricerca tra oltre 20.000 tra giovani (Gen Z) e persino nella prossima generazione Alpha (quelli nati tra il 2008 e il 2021) proprio per capire come meglio selezionare e poi inserire i giovani in azienda e creare una forza lavoro intergenerazionale.
Il suo consiglio principale? Offrire mentoring ai nuovi assunti, ma farlo nel modo giusto.
Il mentoring è importante perché una delle caratteristiche che distingue molti lavoratori della Generazione Z, dai gruppi di età più avanzata, è il desiderio di un piano strutturato per la progressione della carriera, inclusa la formazione finanziata dal datore di lavoro, fin dall’inizio della loro vita lavorativa. L’impulso per questo deriva dalla cultura online: anziché aspirare a diventare medici, calciatori o lavorare in finanza, molti giovani seguono imprenditori ‘influencer’ al di fuori del “sistema”, come trader di cripto o fondatori di startup che fanno sembrare tutto molto semplice e dovuto, e sono cauti nell’entrare a far parte della cultura aziendale tradizionale.
Chloe Combi dice che quando parla con il pubblico della Generazione Z, si impegna a incoraggiare il loro spirito imprenditoriale “ma deve anche essere temperato dal realismo e dall’incoraggiamento che i lavori e i percorsi di carriera più tradizionali sono ancora estremamente preziosi“. Molti di questi lavori offrono opportunità di apprendimento e formazione, e questo è un richiamo per la Generazione Z intraprendente.
Il mentoring può davvero aiutare a integrare e trattenere i giovani dipendenti nei luoghi di lavoro. C’è una tradizionale tendenza ad abbinare i mentor in base alla vicinanza d’età, ma mettere un tirocinante laureato di 21 anni (nel caso italiano sarebbe già tanto arrivarci a 24/25) con un Millennial di circa 30 anni è, secondo lei, “un accoppiamento catastrofico, non funziona proprio“.
Perché? I Millennial hanno lavorato in modo incredibilmente duro e hanno interiorizzato la “cultura dell’hustler”. Potrebbe esserci del risentimento se i giovani parlano dei loro “limiti” e rifiutano di lavorare ore straordinarie o fare altri sacrifici. “Quello che funziona molto, molto meglio,” suggerisce, “è quando abbini la Generazione Z con la Generazione X (ora tra i 40 e i 50 anni).”
“La Generazione X è spesso in una fase della carriera in cui si sente abbastanza a proprio agio—magari non ha raggiunto la vetta della carriera, ma non sarà super-competitiva con la persona più giovane. Potrebbero avere figli adolescenti, quindi potrebbero essere un po’ più pazienti—e inoltre penso che ci sia una sinergia e una riflessione culturale in molti dei valori che la Generazione Z e la Generazione X condividono.”
“Quando la Generazione X è entrata nel mondo del lavoro, era anche post-crisi economica ed era l’inizio della rivoluzione tecnologica”, avrebbe quindi già assimilato tutti i sacrifici svolti circa 20 anni prima e non si sentirebbe in competizione con i colleghi più giovani.
È l’osservazione di Chloe che “i Millennials tendono a lavorare molto meglio con i Boomer (nati nel 1964 o prima), che potrebbero essere al vertice della gerarchia.” Dato che molte persone di successo alla fine dei 30 anni e nei primi 40 puntano al vertice, questo dà loro la possibilità di avere un mentor in una posizione molto alta.
Insomma, la formula del successo di Chloe sarebbe: Z + X = successo
Ma funziona sempre?
Ci sono però due aspetti fondamentali che, secondo me, devono sempre essere considerati in ogni collaborazione di mentorship.
Prima di tutto, la mentorship (in azienda) non è un atto di volontariato, ma un compito specifico volto a migliorare la produttività aziendale. Quando un nuovo assunto entra in azienda, spesso porta con sé freschezza e idee innovative, ma la mancanza di esperienza rende il suo contributo iniziale più lento o talvolta in contrasto con le procedure interne. Questo è normale, ma richiede anche un investimento reciproco: il mentor dedica tempo e risorse per insegnare il ‘mestiere’, e in cambio l’azienda si aspetta un aumento della produttività a lungo termine da parte del nuovo entrato. Il principio guida di ogni mentorship dovrebbe essere quello di mantenere il focus sull’efficienza lavorativa di entrambe le parti coinvolte, evitando dispersioni e distrazioni.
Il secondo aspetto cruciale è che non tutti sono naturalmente portati per fare da mentor, e questo non è un giudizio sulla persona, ma sulla capacità comunicativa ed empatica di ognuno di noi. Essere un buon mentor significa avere la capacità di condividere conoscenze, riconoscendo che il mentee è una persona con propri limiti, aspettative, sogni e illusioni. La vera sfida è quindi riportare il lavoro di entrambi a essere produttivo per l’azienda, trovando un equilibrio tra l’insegnamento e la comprensione reciproca.
Quando questi due aspetti vengono gestiti con attenzione, la mentorship può trasformarsi in un potente strumento per integrare e trattenere i giovani collaboratori, garantendo che la loro crescita professionale vada di pari passo con il successo dell’azienda. Il compito del mentor è quindi cruciale: non solo per trasmettere competenze tecniche, ma anche per costruire un ambiente di lavoro dove la collaborazione intergenerazionale diventa un vantaggio competitivo per l’organizzazione. Per farlo serve apertura mentale e pazienza da parte di entrambe e spesso sono proprio queste caratteristiche che possono mancare. Nel mentor, ma anche nel mentee.
Ecco perché, quando si abbina un mentor della Generazione X con un giovane della Generazione Z, è fondamentale che l’azienda selezioni con cura chi può assumere questo ruolo, garantendo che la mentorship sia non solo un atto di insegnamento, ma anche un processo produttivo e proficuo per entrambe le parti.
Facile? Assolutamente no, ma essenziale.