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L'articolo pubblicato su Millionaire di febbraio 2020.

Michelangelo Mammoliti: «Ci vuole umiltà: siamo cuochi, non salviamo vite»

Di
Silvia Messa
30 Giugno 2020

A tu per tu con Michelangelo Mammoliti, 2 stelle Michelin, un menu a base di ricordi e una nuova tendenza: la neurogastronomia.

«Devo tutto alla mia famiglia. I miei nonni avevano una pizzeria. Ogni piatto è un ricordo. C’è una forte componente emozionale nei miei menu. Ogni volta che entro in cucina penso a un familiare». Michelangelo Mammoliti, 35 anni, ha ricevuto la sua seconda Stella Michelin per il ristorante La Madernassa, a Guarene (Cn), tra Langhe e Roero. Grazie a una cucina innovativa, arricchita dagli insegnamenti di grandissimi chef e dalle esperienze all’estero, che affonda però le radici nel suo passato. E negli affetti.

Dopo i mesi di lockdown, dal 2 giugno il ristorante ha riaperto, accogliendo i clienti in sicurezza tra tavoli all’aperto e la bellezza del giardino. Ecco che cosa ci aveva raccontato Mammoliti in un’intervista pubblicata su Millionaire di febbraio.

Hai iniziato cucinando coi tuoi nonni, che cosa deve uno chef alla cucina di casa?

«Tutto. È la base. Il pollo arrosto che faceva la nonna, attraverso un procedimento di “riduzione”, contribuisce al sapore particolare dei miei spaghetti Apollo. La pizza del nonno si è trasferita negli spaghetti Americanino. Poi ci sono i Ritorno a casa, spaghetti che ricordano la parmigiana che mamma mi faceva quando tornavo dalla Francia. Poi c’è la pasta, che sintetizza il barbecue del mio papà. I dolci, invece, li lego a Simona, la mia futura moglie. E così via. Il mio menu è una specie di album dei ricordi».

Emozioni, ricordi, cibo: è da qui che nasce il concetto di Neurogastronomia?

«Francesca Collevasone, amica psicoterapeuta, docente all’Università di Torino, ha identificato con Neurogastronomia quello che faccio. Per me era una necessità capire come alcuni piatti, frutto di determinate preparazioni, serviti a temperature corrette, attraverso la stimolazione di alcuni sensi (olfatto e tatto), potessero innescare precisi ricordi e suscitare emozioni. E ho scoperto che c’è una base scientifica. La Neurogastronomia è una scienza che esplora il comportamento del cervello in relazione al contesto gastronomico. Sento il bisogno di “trasportare” dentro i miei piatti aspetti di me, della mia creatività, del mio vissuto e di condividere e comunicare tutto questo. Il meccanismo è bidirezionale: io posso avere un ricordo che porta a un piatto, ma anche un piatto può rimandare a un ricordo. Quindi ogni cliente rivive emozioni e ricordi suoi».

Quando dici: “Che bel ristorante!”?

«Il più bel ristorante del mondo è quello con la miglior gastronomia e dove ci si sente come a casa» dice Mammoliti.

Chi, tra i tuoi maestri, ti ha lasciato l’impronta più marcata?

«A Gualtiero Marchesi devo la sensibilità verso l’arte. A Stefano Baiocco l’approccio ai vegetali, la precisione maniacale. Ad Alain Ducasse il rispetto della materia prima e del lavoro di chi c’è dietro: agricoltori, pescatori… A Pierre Gagnaire la sensibilità, l’istintività e la creatività, fuori dagli schemi. A Yannick Alléno il fare lo chef, guidare il gruppo, essere esigente, dinamico e andare all’essenziale delle cose. Quello che non serve si toglie. Nel piatto, nelle persone. Il piatto funziona se dietro c’è una storia. Devi raccontare quello che fai. Ho un rapporto semplice e amichevole coi clienti: facciamo i cuochi, non salviamo vite. Ci vuole umiltà».

Come è stata la tua formazione? Hai studiato in una scuola alberghiera?

«A 11 anni ero in cucina, i miei hanno cercato di distogliermi, ma io volevo fare il cuoco. Ho fatto l’istituto alberghiero, andavo anche da un pasticciere a imparare. Bisogna scegliere la scuola giusta, in Italia, ma preferibilmente fuori. E viaggiare. Io ho lavorato all’estero, dai 21 ai 28 anni. Senza l’apprendistato in Francia non sarei quello che sono».

Beirut: sei andato lì per imparare?

«Lavoravo in Svizzera. Alléno mi mandò a Beirut ad aprire un suo locale. In quel periodo mancò mia nonna e non potei tornare subito, per problemi di Visti. Poi ho proseguito con altre esperienze, in ristoranti più o meno tradizionali. In Francia, ho fatto ricerche su alcune tecniche, tra cui l’estrazione, per ricavare liquidi con sapori concentrati da alcuni ingredienti. Infine, anche per i problemi di salute di mio nonno, ho voluto tornare in Italia. Avevo imparato tanto, volevo creare qualcosa di mio. Era il 2014. Cercavano un cuoco alla Madernassa e hanno preso me».

Che cosa ti ha portato alle stelle Michelin?

«Qui la cucina la sento mia, autentica. Mi immedesimo nel prodotto. Entro nella pentola, anche fisicamente, mi entusiasmo. Per avere la materia prima che dico io, ho creato prima una cassetta in legno con 15 varietà di erbe, poi orti e serre per erbe e fiori. Seguo tutto, dalla semina al trapianto e al raccolto. E con la mia brigata, in primavera e autunno, parto alla ricerca di erbe selvatiche, in montagna. La seconda stella mi ha dato felicità estrema, ma anche senso di responsabilità verso i miei ragazzi e le aspettative dei clienti. Siamo solo in 35, in Italia, con le due stelle».

Consigli a chi vuole aprire un ristorante?

«Circondati di persone efficienti che sappiano fare il proprio lavoro. Nel team ci devono essere tutte le competenze: gastronomica, manageriale, marketing, linguistica. I collaboratori devono avere pari esperienze, rispetto alle tue, e sentire il ristorante come se fosse loro, minimizzando gli sprechi, modificando le dinamiche non proficue e sistemando subito i problemi».

Tratto da Millionaire di febbraio 2020.

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