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Rigoni: «Il lavoro dà sempre i suoi frutti»

Di
Silvia Messa
15 Giugno 2020

Storia di un’azienda pulita che punta su natura, uomini e innovazione. Intervista ad Andrea Rigoni. «Il detto “Aiutati che il ciel ti aiuta” è sempre valido. Tu ci metti del tuo, poi nel tragitto troverai interlocutori che credono nel tuo progetto».

Partita da qualche arnia sull’Altopiano di Asiago, oggi ha tre stabilimenti, sedi commerciali in Europa e negli Usa, coltiva terreni per la propria produzione e ha una filiera controllata, in Italia e in Bulgaria. La Rigoni di Asiago occupa 109 dipendenti e collabora con aziende che condividono da molto tempo la sua filosofia, fatturando oltre 113 milioni di euro l’anno e vendendo in tutto il mondo. Tutto questo è stato realizzato da una famiglia che nel bio ha creduto sempre. Il biologico cresce, di anno in anno. E le marmellate sono tra i 10 cibi bio più venduti.

Da sempre Rigoni di Asiago lavora nel rispetto dell’ambiente e delle persone. Ma come funziona questa realtà italiana? L’abbiamo chiesto ad Andrea Rigoni, Premio speciale sostenibilità 2018 EY L’Imprenditore dell’anno.

La vostra è un’azienda familiare nata da una nonna e dalla sua passione per le api…

«Sì, lei ci ha lasciato insegnamenti importanti. Essere uniti, a livello familiare, nei momenti di difficoltà. E curarsi di chi è svantaggiato. La nonna avviò l’apicoltura per supportare due zii poliomielitici. Lavoravano tutti insieme. Noi continuiamo così, a fare un discorso sociale, con la nostra impresa. La civiltà si sta imbarbarendo, si mette l’accento solo sul denaro e si considera come unico valore quello della ricchezza economica. La più grande ricchezza è essere umani con gli esseri umani, che possono creare ricchezza. Noi facciamo parte di una comunità ed è giusto condividere con gli altri la propria storia terrena. La mia famiglia, noi tre fratelli e un cugino abbiamo cominciato come operai, facevamo di tutto. E abbiamo sempre spartito tra tutti compiti e ricavi».

Il sistema ha funzionato, visti i vostri risultati. Ma chi vi aiutato nella crescita?

«Nel nostro caso sono state le banche. Siamo partiti dal niente, abbiamo sempre reinvestito le risorse economiche. Il nostro lavoro e la crescita dell’azienda le ha convinte che potevamo essere bravi partner, che non puntavamo a speculare, ma a realizzare cose buone. Ora che la società è cresciuta, il volano è più grande. Ma i rapporti personali, la nostra affidabilità sono i valori più importanti da mettere in campo. Ho 68 anni, sono l’amministratore delegato, con varie funzioni che gradualmente sto affidando a manager, nei singoli settori dell’azienda. Con me lavorano mio fratello Luigi e mio cugino Mauro. Poi ci sono soci azionisti. La mia famiglia mantiene il 55% delle quote societarie, il 44% l’ha acquisito nel 2018 un fondo di private equity di diritto lussemburghese, con sede in Svizzera. Quando verrà il momento, il più lontano possibile, lascerò l’azienda in buone mani. Per ora, comunque, continuo a lavorare: è una passione che riempie le mie giornate».

Quando ha capito che la sua azienda stava diventando importante?

«Tardi, è cresciuta nel tempo, nelle diverse aree. Dal miele, siamo passati alle linee di prodotto delle confetture, dolcificate con il miele. L’idea unificante che ha attivato e continua a spingere la crescita è fare un prodotto con materie prime pulite, unendovi le innovazioni di prodotto e tecnologiche, che ci permettono di realizzare qualcosa di adatto al cambiamento del gusto e la ricerca di sapori più naturali, con meno zuccheri e materia prima bio. Il mondo del bio è il migliore per produrre sulla terra quello che consumiamo senza inquinare. Non usiamo chimica, sostanze di lunghissima eliminazione, riduciamo i consumi di acqua e l’impronta di CO2 per ogni nostro prodotto, autoproduciamo parte dell’energia, stiamo collaborando a uno studio con le università di Verona e Padova, per il riutilizzo degli scarti di qualità in prodotti innovativi dalle proprietà antinfiammatorie e antiossidanti…

Molte aziende fanno scelte di responsabilità sociale.

«Non sono scelte di facciata le nostre, non parliamo di sostenibilità perché è di moda. È un work in progress, continuiamo a migliorare. La ricerca tecnologica serve proprio a questo. Poi, vediamo il mondo della produzione come un’unica filiera, che va dal campo alla commercializzazione. Abbiamo rapporti di lunghissimo periodo con produttori agricoli italiani, per avere sempre la giusta quantità e qualità di materia prima, la frutta e il miele. Poi abbiamo scelto di coltivare in Bulgaria, consapevoli che quello che produciamo là non possiamo averlo in Italia: soprattutto fragole, ma anche more di bosco, amarene, uva spina, ribes nero e rosso, lamponi e ciliegie… La frutta è raccolta al punto giusto di maturazione e immediatamente surgelata. Il livello qualitativo è lo stesso, abbiamo scelto delle oasi ecologiche inselvatichite da 10 anni. Impieghiamo nostre maestranze e nostri metodi».

Fate scelte ecologiche anche nel lavoro?

«Assumiamo, con contratti regolari e stipendi in fascia massima, lavoratori locali, in Bulgaria, e anche una comunità di donne Rom, a rischio marginalità. Questi criteri di equità li applichiamo naturalmente anche in Italia: nessuna discriminazione verso i lavoratori, di qualsiasi provenienza siano, no al lavoro nero o sottopagato».

Quali sono le regole del lavoro nella sua azienda?

«Sono semplici. Valorizzare le persone per quello che sono, identità e attitudini. Scegliere bene collaboratori e dirigenti in prima linea e in area esecutiva. Ognuno è il coach delle persone con cui condivide le cose da fare. E le cose si fanno insieme. Creare un ambiente collaborativo e senza barriere. Io stesso mi sento al servizio della mia azienda».

Qui in Italia, come vi inserite nell’altopiano di Asiago?

«Ho un rapporto particolare con la terra in cui sono nato. Negli ultimi anni vedo le difficoltà del territorio a esprimersi e cerco di favorirne la crescita, non solo economica, ma anche culturale e sociale. Cerco di essere stimolo, esempio, di dare opportunità. Abbiamo creato, con sette Comuni, un biodistretto. Abbiamo stimolato a coltivare bio molte aziende agricole: è un modo per far diventare rilevante la zona. L’abbiamo preservata dallo sfruttamento, evitando inquinanti chimici, produciamo in modo sostenibile. Per la cultura, sosteniamo studenti con borse di studio, puntiamo sulla formazione continua per tutto il personale, forniamo libri e sostegno a due case famiglia. Poi, diamo esempi simbolici: le eccellenze italiane devono essere preservate e messe a disposizione delle future generazioni. Ogni anno restauriamo un’opera d’arte e la restituiamo alla comunità».

In che settore consiglierebbe di fare impresa, oggi?

«È molto impegnativo proporre a chi non conosco scelte di vita. Ognuno deve seguire le sue passioni e inclinazioni. Sembra una banalità, ma devi sentirlo dentro e metterlo in pratica velocemente. Rimboccarsi le maniche e fare. Se non fai, non sai se sei bravo a farlo. Le tue forze, poi, le devi unire con quelle degli altri, lavorare come comunità. Sei vincente, se riesci ad aggregare le competenze che ci vogliono, oggi sempre più vaste. Una volta l’imprenditore poteva riunire in sé tutte le qualifiche che servivano. Oggi non è più possibile. Nelle microaziende, scegliete bene i partner che lavorano con voi».

Che cosa pensa del fervore di startup e spinoff?

«Quello che ci ha fatto vincere non è solo il nostro progetto (prodotti sani e buoni), ma anche la capacità di cogliere i cambiamenti e l’attenzione al consumatore e alle sue esigenze. Ora si stanno modificando le abitudini alimentari. Servono alimenti prodotti più velocemente e in modo più leggero. Serve quindi innovazione di prodotto e processo, per dare qualcosa di nuovo ed entrare un po’ nel futuro. Noi collaboriamo con laboratori di ricerca universitari, a progetti comuni per creare o migliorare i nostri prodotti. Certo, bisogna capire qual è la rilevanza di un progetto, se arriva al momento giusto, valutarne i risultati. Lo dirà la parte finale del suo sviluppo se una startup diventerà una società che ha le gambe per camminare e correre».

Avete deciso di aprire dei bistrot: perché?

«Abbiamo aperto due negozi, uno ad Asiago, che è una vetrina per i nostri prodotti, e uno a Milano, “Naturalmente”, dove facciamo cultura del cibo e offriamo piccola ristorazione, colazioni, gelato. Stiamo testando il modello di business per farlo crescere e creare una catena diretta o in franchising. Ma ci vuole ancora un po’ di tempo per fare le cose per bene».

Che consiglio darebbe a un giovane imprenditore?

«Per chi avvia una startup, trovare buoni soci e partner con competenze diversificate in tutte le aree necessarie all’attività. A chi ha già un’attività strutturata e vuole crescere, consiglio di cercare collaboratori più bravi di lui, dipendenti o manager per delegare. Poi, dare il buon esempio, essere un faro per tutti. E nel tempo libero, stare nella natura e pensare alla propria salute» conclude Rigoni.

 

Intervista tratta da Millionaire di marzo 2020. 

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