ninja marketing

Un’azienda innovativa al Sud, partita senza soldi né aiuti. «Si può fare»

Di
Lucia Ingrosso
20 Gennaio 2021

Un’azienda innovativa, al sud, senza soldi e senza aiuti. Anzi, con un grosso debito, a un certo punto. Ma per un ninja nulla è impossibile.

Questa è una bella storia che ha un lieto fine, che però è un nuovo inizio. Ai primi di ottobre, un grande gruppo che fornisce servizi multimediali alle imprese e fattura 37 milioni di euro acquista il 51% di una edutech company piccola, ma dinamica. Il grande gruppo è DBInformation di Roberto Briglia e Gianni Vallardi. La piccola società è Ninja Marketing cofondata e guidata da Mirko Pallera, 47 anni, milanese.

«Ninja è tappa importante dello sviluppo di DBI verso la digital transformation dell’azienda» ha affermato Vallardi. «Con l’ingresso di DBI ci assicuriamo più solidità finanziaria, capacità manageriale e impulso commerciale. Ci consentirà di accelerare i processi di crescita e puntare allo scale up dell’azienda. Per loro contiamo di diventare ciò che la Pixar è stata per Disney: una piccola realtà, ma innovativa» gli ha fatto eco Pallera.

Lui e Alex Giordano, l’altro fondatore, sono vecchie conoscenze di Millionaire (anni fa ci fecero visita in redazione). Oggi è tempo di fare un bilancio di questi primi 20 anni.

Come nasce l’idea di Ninja Marketing?

«Eravamo due amici al master all’Accademia di comunicazione di Milano, nel 1999. Fu lì che ci venne l’idea di lanciare un’agenzia che si occupasse di marketing non convenzionale, aiutando le aziende a promuoversi in modo nuovo. Il nome è un omaggio ai ninja, combattenti giapponesi contrapposti ai samurai. Siamo stati gli antesignani del marketing tribale, branded content, guerrilla marketing, ma anche degli influencer e dei contenuti virali».

Qualche esempio di vostre campagne dell’epoca?

«Nei primi anni 2000 per Barilla sviluppiamo “Nel mulino che vorrei”, una campagna integrata in cui l’azienda chiede ai suoi clienti che prodotti desidera per svilupparli insieme. Supportiamo Tim nel pubblicizzare la tariffa Tribù, che diventa la più gettonata. Lo facciamo grazie a un museo virtuale di street art a cui partecipano i clienti inviando le immagini dei graffiti via mms».

Influencer prima dei social?

«Prima dell’arrivo dei social, gli influencer erano i blogger. Ricordo che organizzammo un incontro fra l’amministratore delegato di Barilla e un gruppo di blogger competenti in materia, per rimediare a un danno di reputazione che aveva subito la linea salutistica Alixir. Oggi si è tornati a una logica di testimonial, con gli influencer che sono le celebrity sbarcate sui social».

Siete stati dei pionieri del southworking.

«Io sono un immigrato al contrario: da Milano mi sono trasferito a Cava de’ Tirreni, la città di Alex, e poi a Salerno. La nostra azienda si è sviluppata “nonostante” il Sud. Anzi, essere al Sud è stato motivo di orgoglio e anche di… storytelling. Sul biglietto da visita avevamo scritto: Milano e Amalfi Coast. Intorno al nostro “covo” avevamo creato un po’ di mistero che spingeva le persone a scoprirci. Tuttora vivo a Salerno, con mia moglie e due bambini».

Sono stati anni di grandi successi e soddisfazioni?

«Campagne importanti, docenze ad alto livello, un libro (Marketing non-convenzionale) che è ancora oggi studiato nelle università. Due sedi. Viaggi in tutto il mondo. Siamo stati fra i primi a parlare di smart working e praticarlo. Grazie all’esperimento #Nomadweeks, l’azienda si dislocava in location esotiche per lavorare anche in viaggio e da remoto».

Ma qualcosa è andato storto…

«La competizione nel settore pubblicitario, anche in un ambito innovativo come il nostro, ha iniziato a essere accesa, con le grandi agenzie che scendevano in campo anche per le piccole campagne con la loro potenza di fuoco. Poi mi sono reso conto che quello delle consulenze non era un modello scalabile, visto che ero io da solo a dovermi far venire le idee…».

Per non parlare del buco di 450mila euro…

«All’epoca eravamo due scappati di casa. Abbiamo fatto scelte manageriali scellerate, spendevamo, avevamo voci di costo che gravavano in modo pesante sul bilancio. A darci il colpo di grazia, nel 2010, è stata la perdita di uno dei clienti principali: Tim. Da lì a ritrovarsi con un debito enorme è stato un attimo».

Come hai raddrizzato la situazione?

«Per molto meno c’è gente che si sarebbe buttata dalla finestra. Io non ci ho mai minimamente pensato. Ho tagliato i rami secchi e le spese inutili. Il debito è stato rateizzato e pagato in 7-8 anni. Tenevo d’occhio la situazione, ma senza farne una malattia. Finché una mattina mi sono svegliato e ho pensato: “abbiamo finito di pagare”. Oggi la società è un gioiellino».

E Alex?

«È più interessato alla ricerca che all’impresa. Dal 2015 è rimasto socio di minoranza senza cariche rappresentative e ha l’1% del capitale sociale».

Qual è il vostro nuovo modello di business?

«Ora ci occupiamo di formazione digitale. L’idea è stata quella di ripartire dalla nostra community:100mila fan appassionati. A loro riserviamo contenuti informativi (a partire da 10 euro al mese), corsi (da 50 a 240), master (900-1.000) ed executive master (2.600). Puntiamo sull’e-learning, che a causa del coronavirus ha avuto un vero e proprio boom».

Che cosa insegna la tua storia?

«Che si può costruire un’impresa anche da soli, senza mezzi, partendo dal Sud. Che è possibile superare momenti bui, reinventarsi, cambiare il proprio modello di business. Per riuscirci, è importante concentrarsi sui propri punti di forza. Ma anche sui propri limiti. E poi bisogna essere capaci di mettere da parte l’ego, accogliendo nuovi soci che possono aiutare a fare il salto di qualità. Avendo a cuore prima il bene dell’azienda che dell’imprenditore».

Articolo pubblicato su Millionaire di novembre 2020. 

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