Sofia Goggia
Sofia Goggia ©Marco Trovati/Pentaphoto

Goggia fortissimamente Goggia

Di
Lionello Cadorin
12 Marzo 2023

La numero uno mondiale della discesa libera sbalordisce sugli sci, ma è una professionista in ogni cosa che fa. Perché è diventata un modello per i giovani anche al di fuori dello sport.

 

Voleva lasciare il suo segno nello sci. Diciamo che c’è riuscita. Vuole imprimerlo ancora più forte, spinta da quell’insoddisfazione positiva (parole sue) che diventa tensione e spinge ad andare avanti per ottenere quanto non si è ancora raggiunto. Quasi banale ricordare che si è rialzata più forte ogni volta che è caduta, e che basterebbe questa sua forza, ormai indissolubilmente parte dell’immagine di supercampionessa dello sci nella specialità che richiede più coraggio, la discesa libera, per farne un modello di volontà e determinazione anche per i giovani che hanno un obiettivo importante nello studio, nel lavoro, nella vita. 

Trent’anni, bergamasca legata alla sua terra, studentessa di Scienze Politiche all’Università Luiss di Roma, un oro olimpico e tre Coppe del Mondo di discesa, anche quando deve parlare di sé non fa giri di parole. Diretta nelle risposte, ma molto riservata, non nomina mai per nome e cognome le persone che le stanno più vicine. Nemmeno lo skiman che condivide con lei allenamenti, test, gare e divertenti video su Instagram. Si chiama Barnaba Greppi, detto Babi (il nome lo facciamo noi), bergamasco pure lui, veterano della Coppa del Mondo. Di Sofia dice: «Non è soltanto una campionessa, è una professionista in ogni cosa che fa».

 

Sofia, raccontaci i particolari di un episodio che dice molto di te. Quando a Sankt Moritz, lo scorso dicembre, ti sei fratturata una mano in gara sbattendo contro un palo, subito come hai reagito? 

«Non ho mai messo in dubbio che il giorno dopo avrei di nuovo gareggiato, cosa che agli occhi di tutti sembrava impossibile. Ma io volevo talmente mantenere il mio pettorale rosso di leader della classifica di Coppa… La prima cosa che mi ha detto il mio skiman è stata: “Ehi, non farti mica ingessare, che domani dobbiamo correre”. Gli ho risposto: “Ma secondo te mi faccio ingessare? Mano o non mano, operazione o non operazione, domani siamo al cancelletto”. Saranno state al massimo 4 o 5 le persone che non hanno dubitato che il giorno dopo sarei stata in gara. Il mio stesso direttore tecnico voleva togliermi dalla lista delle partenti. A lui ho detto: “Tu non hai capito che per me questo è sì un problema, ma io sono troppo determinata a ottenere quello per cui ho lavorato tanto. Faccio anche senza una mano!” (ndr: non solo ha fatto, ma anche trionfato con una mano gonfia e fasciata, attaccata al bastoncino con un nastro verde, poche ore dopo un intervento chirurgico)».

 

 

Sofia Goggia © Giovanni Maria Pizzato/Pentaphoto

 

 

Cosa puoi dire a queste generazioni di giovani che hanno una bella idea, una bella iniziativa, cominciano un percorso che li appassiona e poi al primo incidente, alla prima delusione, al primo “no” si abbattono? 

«Che se si fossero arresi anche quando da bambini stavano imparando a camminare non avrebbero più camminato, no? Semplicemente questo. Penso anche che a forza di guardare ai propri diritti ci si è un po’ dimenticati dei propri doveri. E sono convinta che passare dalle difficoltà sia uno dei modi più aspri e duri per crescere, ma forse anche quello più efficace». 

 

Le ragazze dello sci ti chiedono consigli?

«Nessuna lo ha mai fatto. Io invece alle “vecchie” della squadra, quando ero tra le giovani, ho chiesto di tutto e di più. Ero molto “affamata” di sapere, cercavo di carpire i segreti del mestiere da quelle che il mestiere lo facevano da anni. Anche adesso, quando mi alleno con gli uomini, chiedo, mi confronto. È fondamentale. Neanche una compagna di nazionale mi ha mai chiesto un consiglio. Da un lato resto perplessa, dall’altro mi dico: non fa niente, vivo bene anche senza».

 

Oltre allo skiman hai manager, persone che ti seguono?

«Sì, dietro le mie discese c’è tutto un entourage, dal manager all’addetto stampa, dal mio Gruppo Sportivo Fiamme Gialle all’avvocato che fa i contratti, al commercialista, e così via».

 

Ti trovi bene, immagino.

«Molto, certo. Altrimenti (quasi seria, ndr) li avrei già fatti fuori».

 

Sono persone che ti sei scelta?

«Sì, certo, è fondamentale».

 

Deleghi tutto? Hai dato loro le chiavi dicendo “guidate voi”?

«No, perché la macchina è la mia. Se la guidano dico tornate al punto zero che io controllo».

 

Guardando avanti: i tuoi obiettivi, al di là delle Olimpiadi Milano-Cortina del 2026?

«Per ora i miei obiettivi, per i prossimi 4-5 anni, sono molto legati allo sci. Poi quando chiaramente sarò a fine carriera, vedrò cosa fare. Nel frattempo mi piacerebbe vincere il più possibile e magari laurearmi in concomitanza con la chiusura dell’attività agonistica».

 

 

Sofia Goggia
Sofia Goggia ©Giovanni Maria Pizzato/Pentaphoto

 

Immaginiamo un’attività, quale che sia, dopo la carriera sportiva: resteranno la determinazione, la volontà, la costanza nella preparazione, la capacità di sacrificarti che hai adesso?

«Certo, sicuramente ci saranno l’ambizione, l’impegno con tutta me stessa, la voglia di passare oltre qualunque ostacolo».

 

Tu fai uno sport individuale, e dentro questo sport individuale rappresenti una fortissima individualità. Credi nel lavoro in team?

«Assolutamente sì, tutti devono lavorare in sinergia, e anche per far emergere la mia individualità c’è una pluralità di soggetti che, ciascuno con la propria individualità, devono collaborare». 

 

Anche nel lavoro e nelle imprese ci sono giovani capaci e brillanti che però non riescono fare squadra, vogliono decidere sempre da soli…

«Quando è così bisogna lasciarli andare, perché possono fare un tot ma non potranno mai crescere ed evolversi con te. Ogni tanto bisogna anche avere il coraggio di dire ciao».

 

Ti è capitato di dire qualcuno di questi ciao?

«Sì, a figure che mi avevano dato molto ma non riuscivano a continuare a crescere. A quel punto sei su un binario morto».

 

 

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