Niccolò Maisto
Niccolò Maisto

Niccolò Maisto, il cervello dietro Faceit, la più grande piattaforma di e-gaming con oltre 20 milioni di user

Di
Eleonora Caruso
6 Settembre 2023

Gli e-sports hanno raggiunto un livello tale da essere inclusi nelle Olimpiadi, attirando grandi folle negli stadi per assistere alle competizioni dei pro-gamer. FACEIT è una rinomata piattaforma di gaming che offre un’opportunità sia per giocatori professionisti che non, di partecipare a entusiasmanti tornei online. L’anno scorso, la piattaforma ha annunciato un accordo di partnership multimilionario con la fintech Cake DeFi. L’accordo vede i giocatori partecipare a matchup e tornei con premi in criptovaluta del valore di oltre mezzo milione di dollari.

Dicci qualcosa di te: da dove vieni, qual è il tuo background? 

«Ho vissuto fino a vent’anni in Italia, tra Genova e Milano, poi ho cominciato a lavorare in investment banking a Londra e in seguito ho fatto l’MBA a New York, dove sono entrato nel private equity. A quel punto potevo scegliere se continuare su quella strada oppure cominciare una carriera da imprenditore, come poi ho fatto. La mia prima idea era quella di fare l’investor early stage, ma credevo mi servisse prima un’esperienza imprenditoriale, per questo motivo abbiamo fondato FACEIT, quasi aspettandomi più il fallimento che il successo». 

Tu vieni dal mondo dell’investimento, e qual è stata la scintilla che ti ha convinto a fare il salto al gaming?

«La verità è che l’idea in sé, secondo me, vale veramente poco. Ma già mentre iniziavo a validarla mi sono reso conto che, rispetto al private equity, non solo mi divertivo di più, ma imparavo anche di più. Arrivavo a fine giornata che mi sentivo più realizzato, rispetto a lavorare su un modello o su un investimento. L’idea poi è cambiata tantissime volte, quella iniziale non la consiglio a nessuno (ride)».

 

Niccolò Maisto

 

Quali caratteristiche deve avere un imprenditore?

«Ho visto imprenditori tra loro totalmente diversi. Lo stile che piace a me è quello di chi riesce a entrare in qualunque topic, dal development, al finance, alla strategia, pur essendo hands off da tutto. Oggi ci sono poche cose che gestisco direttamente, ma posso entrare su qualsiasi tema.  Altri imprenditori invece sono hands on su un solo topic, spesso sales. Altri ancora sono ferratissimi sul prodotto, ma non vogliono saperne per esempio del fundraising. Non c’è uno stile giusto o sbagliato, ma personalmente consiglierei di conoscere un po’ di tutto, banalmente perché se non sai come funziona qualcosa sarà più difficile assumere qualcuno che la faccia bene». 

Cosa fa la differenza tra una startup di successo e una che fallisce?

«A pelle direi “la fortuna”, perché so che quando lavoro tanto tendo a essere anche abbastanza fortunato. Ma una caratteristica in comune alle startup che scalano è la capacità di standardizzare il prodotto, che deve avere un valore concreto per il consumatore. Un nostro grosso errore, in passato, è stato quello di passare troppo tempo su customer segment che poi abbiamo scoperto non essere così rappresentativi. Se per esempio ti specializzi troppo sul mercato italiano, cominciare a servire il resto del mondo è davvero difficile e quindi diventa difficile standardizzare». 

Altri errori? Su un piano più personale… 

«Ho sbagliato e sbaglio ancora spesso con le persone. Ricordo qualcuno che è rimasto con noi per due anni, nonostante ci fossero bastati sei mesi per capire che la collaborazione non sarebbe funzionata. Eppure abbiamo tutti rimandato di affrontare la questione, finché non è venuto comunque il momento di sedersi a un tavolo e dirglielo. In questo modo si fa un dispiacere sia al dipendente che all’azienda, ecco perché bisognerebbe agire prontamente. Ma è più facile a dirsi che a farsi». 

Quali sono state le complessità nel gestire una fusione importante come quella Faceit e Esl?

«Direi soprattutto le persone. Le società sono fatte di persone e ognuno vede le cose a modo proprio. La complessità sta nell’usare empatia, cioè far sì che le persone si sentano parte dell’azienda, si sentano coinvolte. È fondamentale riuscire a capire il punto di vista di chi è dall’altra parte. Questo si traduce in leadership e cultura aziendale».  

Cos’è cambiato nell’ecosistema UK rispetto a quando sei partito tu?

«L’ecosistema che si è sviluppato tantissimo. Dieci anni fa c’erano molti meno esempi di successo da seguire, fare fundraising era più difficile. Adesso parliamo di volumi dieci volte superiori e la stessa cosa mi sembra che stia succedendo anche in Italia». 

Cioè? Come vedi il nostro Paese?

«Direi che è un passo indietro all’Inghilterra, ma sicuramente più avanti rispetto a dieci anni fa. L’ho notato grazie alla mia attività di mentor Endeavor, e in particolare al programma Elevator, dove si presentano aziende di grande maturità, con numeri che solo qualche anno fa sarebbero stati impensabili. Quello che manca al momento sono le exit. Questo dipende, credo, dall’ecosistema corporate che c’è intorno, per cui persiste ancora l’idea o di vendere fuori dal Paese, o di portare l’azienda fino alla fine, che però significa aspettare vent’anni per riuscire ad avere dei modelli di successo».

Prima parlavi della tua attività di mentor Endeavor. È un ruolo in cui ti trovi bene?

«Sì, ed è super, super interessante. È per questo motivo che ci sto dedicando del tempo. La qualità degli imprenditori è altissima, imparo molto e mi aiuta a tenere il cervello allenato, che per un imprenditore è una delle cose più importanti. Un nostro grosso errore, in passato, è stato quello di passare troppo tempo su customer segment che poi abbiamo scoperto non essere così rappresentativi»

 

Articolo pubblicato su Millionaire luglio/agosto 2023.

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