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Silicon Valley: dalle grandi dimissioni al gran ridimensionamento?

Di
Laura Fois
4 Luglio 2022

Il Covid si è abbattuto come un terremoto a livello mondiale, e anche la Silicon Valley e l’America intera hanno avvertito le sue scosse. Nel 2021, 48 milioni di americani hanno lasciato il lavoro in cerca di migliori condizioni salariali e di vita. Si è parlato, per questo, di “great resignation” (grandi dimissioni). Seguita da una forte ondata migratoria e altri fattori come la guerra russo-ucraina e il caro prezzi, ha spinto le aziende a ridimensionarsi e in alcuni casi a licenziare i propri dipendenti. Si può dire che il 2022 sarà un anno di assestamento per le big tech?

 

La pacchia è finita

Elon Musk, patron di Tesla, non l’ha certo mandata a dire: “o fate 40 ore in ufficio o cambiate lavoro”. Netflix ha licenziato a fine giugno 300 dipendenti, Coinbase ne ha tagliato altri mille. Il CEO di Meta, Zuckerberg, ha annunciato, per via delle flessioni del mercato e delle minori entrate pubblicitarie, il blocco delle assunzioni e l’intenzione di tagliare i dipendenti meno performanti: “Ci sono probabilmente tante persone che non dovrebbero essere qui”, ha detto senza mezzi termini, secondo fonti Reuters.

Chi va, chi resta

Che succede a San Francisco? Il tasso di disoccupazione è dell’1.9%, ma la città ha perso forza lavoro: nel febbraio 2020 (con il 2.2% di disoccupazione) si contavano 587.300 lavoratori contro i 566.800 attuali. San Francisco non si è ancora del tutto ripresa dalla migrazione iniziata col Covid: secondo dati Census la città ha perso il 6.3% di popolazione dal luglio 2020 al luglio 2021. Vivere nella mecca dell’innovazione non è semplice e lo spettro della recessione è concreto, come avevamo già annunciato su Millionaire. Anche le grandi aziende, allora, hanno deciso di rimboccarsi le maniche. Block, l’azienda del fondatore di Twitter Jack Dorsey, ha lasciato il quartier generale di San Francisco, aprendo, come la stessa Twitter, uffici più contenuti a Oakland, dall’altra parte della baia.

Secondo uno studio di LinkedIn, la Bay area è quella che ha perso più tech workers in assoluto. Li hanno accolti città come Austin, dove le tasse e gli affitti sono meno cari e il clima è migliore. Secondo la camera di commercio della capitale del Texas sono arrivati nel 2020 più di 12mila lavoratori, mentre aziende come Google, Apple e Tesla stanno investendo in nuove strutture, grazie a generosi incentivi fiscali. Atlanta è un altro tech hub emergente: LinkedIn, Apple e Microsoft hanno aperto uffici alla ricerca in particolare di talenti di colore (chiamati black talent), soprattutto laureati dell’università Georgia Tech.

Il ballo del mattone

Eppure, mai dare per morta la Silicon Valley. A San Francisco si è ripreso a costruire dopo la pandemia, e società come Visa hanno firmato importanti contratti. La sola Google ha stanziato un miliardo di dollari nel mercato immobiliare californiano, mentre Apple si espanderà nella zona di Sunnyvale. Il modello lavorativo vigente resta quello ibrido, ma sempre più dipendenti stanno tornando in ufficio, dove godono di una serie di benefici, come i pasti gratuiti. È come se le big tech stessero cercando di far quadrare i conti, visto il calo dei profitti generale, muovendosi con passo attento lungo scosse di assestamento che potrebbero protrarsi per tutto il 2022. “Se dovessi scommettere, direi che questa è una delle peggiori crisi a cui stiamo assistendo nella storia recente”, ha ammonito Zuckerberg in una recente sessione con i propri dipendenti. E se lo dice uno dei più potenti imprenditori del mondo, ne vedremo delle belle, o meno belle.

Di Laura Fois, corrispondente diretta da San Francisco

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