Il venture capital riscrive le regole del gioco e riparte da zero
Marc Andreessen, foto da Wikipedia ©

Il venture capital riscrive le regole del gioco e riparte da zero

Di
John Thornhill
25 Gennaio 2024

Il boom degli investimenti è finito, ma l’ottimismo della Silicon Valley nasconde i problemi legati a rendimenti e capitale degli investitori.

 

In tempi cupi, il mondo ha bisogno di un barlume di speranza. Ed ecco che l’inarrestabile venture capitalist Marc Andreessen, cofondatore di Andreessen Horowitz, ci presenta il suo manifesto tecno-ottimista: «Dateci un problema del mondo reale, noi inventeremo la tecnologia che lo risolverà».

Non importa che miliardi di dollari siano stati inutilmente sprecati in investimenti in cripto e metaverso, che le valutazioni dei private market siano crollate e che i listini non siano ancora surriscaldati: quell’incredibile macchina tecno-capitalista che è la Silicon Valley continua a canticchiare, con la convinzione di poter costruire un futuro migliore. Si tratta di quello che possiamo definire “ideologia as usual” nella terra del venture capital? In realtà, quando il volume si abbassa, molti venture capitalist ripensano in silenzio alla loro strategia finanziaria, consapevoli che le condizioni eccezionalmente favorevoli degli ultimi due decenni non si ripeteranno. L’anno scorso alcuni commentatori si sono persino chiesti se l’industria avesse raggiunto il cosiddetto “momento Minsky”, che si verifica quando, dopo un periodo di forte speculazione al rialzo, i valori degli asset collassano improvvisamente (ma fino ad ora non c’è stato nulla di così drammatico).

Quest’anno altri si sono chiesti se ci stiamo avvicinando alla fine dell’epoca imprenditoriale fondata sul venture capital. Per un settore come questo, costruito su facili entusiasmi e ambizioni sfrenate, c’è molta incertezza, perché molti fondi di venture capital lottano per raccogliere capitali. Gli storyteller hanno bisogno di raccontare una nuova storia.

L’industria del venture capital ha certamente vissuto un’epoca d’oro nei primi due decenni di questo secolo. L’adozione quasi universale di Internet e degli smartphone ha creato l’infrastruttura digitale che a sua volta ha fatto esplodere gli e-commerce e i social media, finanziati dal venture capital. Le Internet Company rivolte ai consumatori, che hanno la caratteristica di poter crescere velocemente a costi marginali trascurabili, erano una tentazione per questo tipo di investitori, perché consentivano di trasformare investimenti iniziali relativamente bassi in exit di grandi dimensioni. Inoltre, le condizioni monetarie straordinariamente favorevoli dopo la crisi finanziaria globale del 2008 hanno permesso ai vc di raccogliere denaro a basso costo e investirlo in aziende in rapida crescita, come Uber e Airbnb.

Questo modello strategico basato sul capitale, che privilegia la crescita dei ricavi rispetto alla creazione di cassa o di profitti, è molto più difficile da far funzionare ora che il denaro ha un costo. Quando Brian Chesky, cofondatore di Airbnb, è venuto a trovarci al Financial Times, ha riconosciuto che se la sua azienda fosse nata oggi non avrebbe potuto adottare la strategia di crescita degli anni 2010.

Anche il contesto regolatorio piuttosto permissivo degli Stati Uniti si è irrigidito. Non consentirà più a startup e venture capitalist di fare cassa vendendo a voraci aziende tech, riutilizzando indirettamente i soldi in nuovi investimenti. Secondo un report del 2021 di CB Insights, negli ultimi 30 anni le grandi aziende tech hanno completato più di 800 acquisizioni. Ma il regime antitrust di Washington, oggi più severo, ha impedito molte di queste exit, mentre la strada della quotazione pubblica resta piena di ostacoli.

Date queste prospettive cupe, molti dei cosiddetti “investitori turisti” che si sono riversati nei mercati privati late stage alla fine degli anni 2010 sono tornati a casa. Come ha scritto Sam Lessin, partner di Slow Ventures, in un manifesto “tecno-realistico” su The Information, la catena di produzione dei vc che sfornava in serie unicorni (startup valutate più di 1 miliardo di dollari) nel campo del software ha chiuso i battenti. Dopo aver fallito nel tentativo di diventare un’asset class istituzionale, il venture capital sta tornando a essere un’attività artigianale. Questo va bene per alcuni di loro. «Il nostro lavoro è trovare imprenditori che sono a questo mondo per rivoluzionare settori consolidati», spiega Danny Rimer, partner di Index Ventures, descrivendo il vc come “un’attività fondata sulla passione”. E aggiunge: «Pensiamo che sia un ottimo momento per investire. Ci piace essere controcorrente».

Altre società di venture capital stanno cercando di riscrivere le regole del gioco. Per esempio General Catalyst, il fondo statunitense late stage, si sta fondendo La Famiglia, fondo tedesco early stage, per unire competenze internazionali con conoscenze locali. «L’industria del vc è rimasta legata al finanziamento ad aziende che fanno software per le imprese: dovrà essere più innovativa, e finanziare le climatech e le startup che fanno hardware per l’industria», suggerisce Judith Dada, partner di La Famiglia. «L’ecosistema del venture capital evolverà. I successi di domani non assomiglieranno a quelli di ieri». Proprio come in cima a ogni mercato rialzista è pericoloso credere che “questa volta è diverso”, lo stesso succede in fondo a ogni mercato ribassista. Ma, soprattutto, i venture capitalist stanno pregando affinché i tassi di interesse scendano, il ciclo di mercato si inverta e torni la voglia di fare.

 

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