La libertà è su due ruote

Di
Redazione Millionaire
7 Agosto 2012

Due storie a confronto. Un giovane italiano che viaggia con una “Graziella”, dall’Islanda al Nepal. E uno svizzero che ha girato il mondo per sette anni con una bicicletta

Dall’Europa al Tibet attraverso l’Asia, dall’India alla Cina, dall’Alaska al Sud America, dal Sudafrica al Marocco per poi fare ritorno in Svizzera, attraverso deserti, valli e passi. Tutto in bicicletta, per sette anni. Claude Marthaler, svizzero, 49 anni, ha percorso sulle due ruote 122mila km. è un “nomade a pedali”, che vive grazie ai suoi viaggi, scrivendo reportage che sono diventati libri di successo.

Dalla Svizzera all’Italia. Mauro Vanoli, 35 anni, di Maslianico (paesino in provincia di Como), ha un diploma tecnico, una vita e un’occupazione normali. Ma in Nepal è una star. Ha raggiunto Kala Pattar, il balcone sull’Everest, con una “Graziella”. Prima era stato negli Usa: oltre 6.000 km in bici, da solo. Poi è stata la volta dell’Islanda. «A due passi dal Polo, 1.600 km e un freddo cane». Due storie diverse con un unico comune denominatore: la bicicletta come via per la felicità.

Claude Marthaler, 49 anni, ciclonauta

Sette anni on the road

Sette anni in bici: di che cosa ha vissuto?

«È stata la più bella esperienza della mia vita. Dal punto di vista esistenziale: ho esaudito con gioia un sogno d’infanzia. Dal punto di vista finanziario: con qualche piccolo risparmio, aiuti di aziende sportive, l’ospitalità della gente, uno stile di vita spartano e creativo e soprattutto con la pubblicazione di articoli e foto».

Che cosa insegna un viaggio in bicicletta?

«Molte cose. L’equilibrio, la determinazione, l’accontentarsi, l’umiltà, la vita semplice, sana e all’aria aperta, il valore della lentezza, la scoperta e il rispetto di sé e l’attenzione per gli altri. Ma anche la convivialità, la solidarietà, il calore umano e la generosità, molto più frequenti in chi non ha nulla che non in chi ha tutto. Viaggiare in bicicletta aiuta a superare sia le latitudini culturali e geografiche sia le proprie frontiere interiori. In costante disequilibrio, in bici, bisogna trovare la giusta velocità per lasciarsi crescere interiormente».

Quali i ricordi più toccanti di questi sette anni?

«Innanzitutto i valori positivi e universali come l’umanità. E la gentilezza manifestatami nel quotidiano ovunque sul Pianeta. E ancora: il senso del sacrificio e la forza viva, condivisa da tutti i genitori del mondo, che si impegnano a fondo affinché i loro figli possano vivere una vita migliore».

Che cosa dà (e che cosa toglie) la bici, rispetto ad altri mezzi di trasporto?

«La bicicletta, con la sua discrezione e la sua efficienza energetica, è il solo mezzo di locomozione (con il cammino a piedi) che non disturba né gli uomini né la natura. Lo sforzo fisico esalta i sensi e dunque la percezione della realtà. La velocità poco elevata della bici permette di coprire un lungo tratto e di fermarsi (in un piccolo villaggio o campeggiare), là dove nessun turista si ferma e di scoprire così la vita. È un viaggio verso la realtà, che ha come ingrediente base l’entusiasmo e come doping gli incontri».

Cosa vuol dire a chi passa la vita in ufficio per 1.000 euro al mese?

«Non mi permetterei di dare lezioni a nessuno. Attraversiamo la vita come ciechi, con quello che abbiamo ricevuto dall’amore o che non abbiamo ricevuto, con quello che siamo. A ciascuno il compito di trovare la propria vita. Il pregiudizio contenuto nella domanda sottintende un’opposizione tra la felicità costante (del viaggiatore) e un malessere in chi resta (in questo caso un sedentario con un basso salario). Ne esce una visione in bianco e nero della vita che è, in realtà, molto più ricca, perché composta da tutti i colori».

Cos’è per lei la felicità?

«Briciole d’amore, raccolte qua e là. La gioia di amare e di essere amati, di sapere chi si ama (innanzi tutto i miei genitori e i miei amici), vivere bene. Felicità è quando accetto la vita nella sua totalità, con i suoi drammi e le sue gioie, come viene, e perché no, con una certa fatalità. Quando sono completamente assorbito da un’attività (una lettura, una conversazione, un incontro) fino a dimenticare il mondo esteriore e il tempo che passa. Quando vivo e non mi pongo delle domande, soprattutto quelle sulla felicità. Come a volte è semplice essere complicati e complicato restare semplici…».

INFO: www.yaksite.org

Marco Vanoli, 35 anni, “Selvatiko”

In Nepal con una “Graziella”

Quando il primo viaggio su due ruote?

«Era il 1999. Lavoravo in un magazzino farmaceutico, ma avevo la sensazione di perdere il mio tempo. Quell’attività non mi interessava. Il giorno in cui la mia azienda ha deciso di trasferirsi, ho colto la palla al balzo. Mi sono licenziato e ho deciso di fare il viaggio della mia vita: un coast to coast negli Stati Uniti, da San Francisco a New York, passando per Seattle. Sono stati tre mesi belli, faticosi, pieni di esperienze».

E poi il ritorno alla normalità?

«Sì. Ho ricominciato a lavorare, anche se part-time, per avere il tempo da dedicare alla bici. Ho fatto tanti viaggi, ma da semplice turista, come tutti. Ho fondato una squadra amatoriale di ciclismo. In questa veste, mi sono dedicato alla ricerca di sponsor e finanziamenti. Mi sono presto reso conto che la mia qualifica di presidente faceva colpo sulle aziende, ben disposte nei miei confronti. Così ho iniziato a chiedere qualcosa per le mie imprese».

Cosa la distingue dagli altri ciclisti che girano il mondo?

«L’originalità delle imprese, credo. Girare l’Irlanda in bici è alla portata di molti. Più difficile, invece, andare in Nepal con la “Graziella”. Io cerco sempre di inventarmi una particolarità nell’avventura, qualcosa che mi distingua dagli altri».

Quanto costano i suoi viaggi? Come si finanzia?

«Mi chiamano “Selvatiko”. Sono un tipo molto spartano: dormo in ostelli e camping. I costi riguardano principalmente l’aereo e il cibo. Per la prossima impresa, un mese in Nepal, ho calcolato 4.000 euro in tutto, includendo la mia paghetta. Ho due alternative: andare quando voglio e sborsarli di mio, oppure aspettare il tempo necessario a trovare uno sponsor. L’originalità delle mie imprese è un ottimo incentivo per le aziende, che mi finanziano volentieri. Certo, i tempi sono lunghissimi. Per convincere la Bic a contribuire al mio viaggio in Thailandia del 2007 ci ho messo sei mesi!».

Non è tutto facile, allora?

«Dietro ogni viaggio c’è tantissimo lavoro e un impressionante numero di porte in faccia. Nel progettare l’impresa con la “Graziella” in Nepal (una vecchia bicicletta rosa tutta arrugginita, trovata fuori da un cassonetto e rimessa a posto con l’aiuto di un gruppo di amici, ndr), ero certo del supporto dell’azienda produttrice, la Carnielli. Ma non è stato così. Io non sono un figlio di papà, devo darmi da fare. Una volta trovati i fondi, inizia la seconda parte del lavoro: i sopralluoghi (da effettuare nella stagione giusta), la preparazione dell’attrezzatura… In genere, cerco di fare un’impresa all’anno. Fra un’avventura e l’altra, partecipo a fiere e incontri, parlo agli altri dei miei viaggi, do visibilità ai miei sponsor e a chi mi fornisce le attrezzature».

Quale messaggio vuoi dare con le tue imprese?

«Non faccio niente di strano. Non c’è nulla di estremo nei miei viaggi. Tutti possono fare trekking in Nepal. Se poi io decido di farlo con 24 kg sulle spalle, invece di salire con i portatori, è una decisione mia. Bisogna metterci entusiasmo, un pizzico di follia anche, ma alla fine bisogna usare la testa».

Lei conserva un lavoro fisso, anche se part-time…

«Ho 35 anni: alla mia età, voglio conciliare all’avventura anche una vita normale. Lavoro in un’agenzia che organizza viaggi ed eventi, un’azienda amica e sponsor, tre giorni alla settimana. Parto nei momenti meno impegnativi per il lavoro. Ma il problema non è tanto il tempo, quanto lo spirito. Tutti potrebbero partire con lo zaino in spalla e fare una vacanza spartana nelle due settimane che hanno a disposizione ad agosto. Eppure non lo fanno: perché non a tutti interessa questa esperienza».

Tuttavia queste avventure fanno sognare tutti…

«Sì. Scrivo le cronache dei miei viaggi in un blog e ho un sacco di persone che leggono e sognano con me. Viaggiare è sinonimo di libertà, incontri, paesaggi sempre diversi. Non tutti hanno voglia di un turismo così spartano e avventuroso, ma condividono volentieri queste esperienze».

Lei viaggia sempre da solo: è un solitario?

«No. Anzi, le persone che incontro sono l’aspetto più bello dei miei viaggi. A Katmandu mi sento come a casa mia: conosco tutti. Quando sono in giro, non mi faccio problemi a chiedere un bicchier d’acqua o anche ospitalità. Viaggio da solo perché mi piace tenere i miei ritmi. E i miei ritmi elevati spaventano i possibili compagni di viaggio».

Ostacoli, difficoltà, imprevisti: come li vive?

«Fanno parte del gioco. Inevitabili, superabili. Nel 2006, avevo l’obiettivo di raggiungere in Nepal il campo base della vetta più alta del mondo, l’Everest. Mi hanno fermato una guerra interna e il divieto di accedere al parco della riserva con la mountain bike. Così ho lasciato perdere, ma era un arrivederci, non un addio. Sono tornato nel 2008, con un escamotage: la bici nello zaino. E ce l’ho fatta! A volte, invece, si corrono pericoli senza saperlo. Come quando, negli Usa, sono passato da Gary, la città con il record di omicidi. L’importante è non abbandonarsi alle proprie paure e andare avanti sempre».

INFO: www.selvatiko.com, www.selvatikontheroad.blogspot.com

Lucia Ingrosso, Millionaire 1/2010

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