Tommy Hilfiger, da figlio dei fiori a miliardario

Di
Redazione Millionaire
23 Agosto 2012

Volete creare un marchio di moda? Leggete la storia di Tommy Hilfiger. Partito dal nulla a 16 anni, è arrivato in ogni parte del mondo. «Ho fatto molti errori ma ho sempre lottato per creare qualcosa di mio»

«Essere imprenditore è qualcosa che ti scorre nel sangue. Hai bisogno di una motivazione forte, di tenere gli occhi aperti per trovare nuove strade e per rimanere nel business. Non importa in che settore intraprendi. Io sono andato per esclusione. Sapevo che l’università non faceva per me. Volevo sperimentare la mia creatività. A nove anni tagliavo il prato dei vicini, facevo il magazziniere e il benzinaio. Mi compravo i vestiti, per non dipendere dalla mia famiglia. A 16 anni, andavo da Elmira a New York con la mia vecchia Volkswagen per comprare jeans a zampa di elefante e rivenderli agli studenti della mia cittadina»

La storia di Tommy Hilfiger, che Millionaire ha intervistato a luglio, ha il sapore del sogno americano. Cresciuto in una famiglia modesta (padre orologiaio, madre infermiera), a 400 km da New York, secondo di nove figli, a 18 anni fonda il suo primo negozio. Oggi, a 60 anni, dopo essere passato attraverso successi e fallimenti, ha venduto la sua azienda per tre miliardi di dollari (2,2 miliardi di euro).

Fai i conti con la realtà

Nel 1969, per pagarsi le vacanze, Tommy va a lavorare come commesso in un negozio di abbigliamento hippy a Cape Cod, nel New England. Torna trasformato: capelli lunghi, sandali e pantaloni a zampa di elefante.

Era l’anno di Woodstock, della guerra del Vietnam, di Jimi Hendrix e dei Doors. Ascoltavo la musica rock, volevo somigliare alle rockstar dell’epoca. I miei genitori erano preoccupatissimi, ma sentivo di avere un istinto per la moda. La città dove vivevo era piccola e provinciale, c’era un terribile bisogno di vestirsi in modo più cool. Così, insieme a due miei compagni di scuola, Larry e Jonathan, abbiamo avuto l’idea di andare a comprare stock di jeans a New York per rivenderli a Elmira, dove non esisteva nulla del genere. Con 50 dollari a testa abbiamo iniziato la nostra avventura. Compravamo jeans a zampa di elefante a 3,5 dollari e li rivendevamo a Elmira a 5,88, sul cofano della macchina. I ragazzi del paese ne andavano matti.

Tieni il business sotto controllo

Dopo poche settimane Tommy e i suoi due amici decidono di aprire un vero negozio.

Si chiamava People’s Place. Le pareti erano dipinte di nero. Vendevamo jeans, sciarpe di seta e dischi delle mie band preferite, l’incenso che diffondevamo nell’aria ti rimaneva impregnato nei vestiti per ore. Tra i nostri clienti c’erano rockstar come Bruce Springsteen. In tutto lo stato di New York a quei tempi non esisteva un posto così.

Dopo un solo anno, il negozio arriva a fatturare un milione di dollari, poi è un crescendo con cifre a sei zeri e altre sei aperture in diverse città. «Avevo 23 anni e già mi potevo permettere di affittare un aereo, avevo una Porsche e una Mercedes, una Jeep e una Jaguar» ricorda Hilfiger. Un successo però, troppo immediato. Con il tempo, People’s Place non è più il solo a vendere questo genere di abbigliamento, la concorrenza è spietata e i tre soci non riescono a controllare i conti. «Non eravamo lungimiranti, spendevamo troppo. Non eravamo concentrati sul business, ma solo sul prodotto. Siamo falliti, ma lì ho imparato la mia prima lezione di impresa» spiega Hilfiger a Millionaire.

Non aver paura di rischiare

Nel 1977 Tommy si sposa, si trasferisce a New York e cerca lavoro come designer. In realtà non aveva mai fatto lo stilista né aveva studiato per diventarlo.

Quando avevo il negozio, c’era sempre qualcosa che non mi convinceva nei capi che compravo da altri: un dettaglio che avrei cambiato, un lavaggio di jeans che avrei rifatto. Così prendevo in mano una matita e schizzavo dei modelli. Il mio primo disegno è stato una camicia jeans. Facevo sperimentazioni, portavo i jeans in tintoria e li facevo sbiancare con le pietre nelle tasche
.

A New York, Hilfiger comincia a fare un po’ di pratica, ma gli inizi sono difficilissimi. La prima etichetta per cui lavora lo lascia a casa dopo un mese, poi disegna per altri piccoli marchi, ne fonda un paio anche lui, che poi chiude. Nel frattempo sta per nascere la sua prima figlia, si fa strada un desiderio di stabilità. È proprio in questo periodo che Calvin Klein, un brand già affermato a quei tempi, gli propone di lavorare come stilista per la sua linea jeans. Chiunque nella sua situazione avrebbe accettato questo lavoro. Tommy no. «Ho considerato seriamente l’ipotesi di lavorare per Calvin Klein ma, in fondo al mio cuore, sapevo che volevo fondare una mia azienda. Ho incontrato un investitore che ha creduto nel mio sogno ed era disposto a finanziarlo. Ho seguito il mio istinto e oggi posso dire che era l’unica cosa giusta da fare».

Crea uno stile nuovo

Mohan Murjani è l’investitore indiano che sta cercando un giovane designer per lanciare una linea di sportswear. Il fatto che Hilfiger non abbia una grande esperienza per Murjani è un vantaggio: gli consente di contenere i costi. Tommy accetta la proposta: Murjani sarà proprietario della società, Hilfiger darà il suo nome. Quello che occorreva fare a questo punto era creare uno stile che lo distinguesse. Come ha trovato l’idea?

Ho sempre amato lo stile preppy, quello dei “figli di papà” americani che andava di moda negli anni 50. Volevo rivisitare questo genere, ma dandogli un tocco più fresco. I jeans, le polo, le T-shirt. Nel 1985 nasceva la mia prima collezione.

Smàrcati dalla concorrenza

Hilfiger non era certo il primo designer a proporre il “classico stile americano”. A quei tempi nomi come Ralph Lauren e Calvin Klein, aziende fondate alla fine degli anni 60, erano già molto affermate. Come distinguersi da loro? Hilfiger e Murjani si rivolgono a un pubblicitario d’eccezione, George Lois, che per 160mila dollari si inventa un cartellone che verrà appeso in Times Square a New York e che rimarrà nella storia. Il cartellone recita così: “I 4 grandi stilisti americani PER LA MODA UOMO sono: R-L, P-E, C-K e T-H”. Le iniziali erano appunto quelle di Ralph Lauren, Perry Ellis (altro importante marchio Made in Usa) e Calvin Klein. Ma come osava Hilfiger considerarsi un grande stilista se non aveva venduto nemmeno un capo? Le ire dei “veterani” si scatenano. «Ero più cool di Ralph, meno sexy di Calvin e meno caro di Perry» ha recentemente dichiarato al giornale francese Le Figaro. In soli 11 mesi la sua linea incassa 11 milioni di dollari.

Sii fedele al tuo consumatore

Dopo soli tre anni, però, la società di Murjani fallisce di nuovo. L’imprenditore indiano aveva investito in troppi business. Ma Hilfiger non vuole vedere il suo sogno svanire, e si mette alla ricerca di un nuovo investitore, che trova in Silas Chou, un cinese di Hong Kong. Riesce a spuntare il 22,5% della nuova società. Da qui una nuova ascesa. Le vendite lievitano: 28 milioni di dollari di fatturato nel 1988, 50 l’anno successivo, fino ai 100 del 1990. «Essere un designer di successo oggi ha meno a che vedere con la moda, significa piuttosto intercettare quello che il consumatore chiede».

Nel 1992, mentre la società viene quotata in borsa, Hilfiger allarga a dismisura i suoi modelli, introducendo colori molto più sgargianti. Star del rap come Coolio e Raekwon indossano i suoi capi durante i loro concerti. Ma è il 1994 l’anno in cui il marchio è consacrato. Nel 1995 lo stipendio di Hilfiger è di sei milioni di dollari. Compra una magione di 22 stanze a Greenwich per 10 milioni di dollari. Oltre a un’altra a Nantucket e sull’isola caraibica di Mustique. Ricco e famoso, nel 1994 vince il premio del Council of Fa­shion Designers of America, equivalente agli Oscar per la moda.

Non allontanarti dalla tua rotta

Ma, nel 2000, nuove difficoltà sono in agguato. Le vendite negli Stati Uniti calano del 75%, il valore delle azioni si dimezza e i giornali non parlano più di lui. «Avevamo saturato troppo la domanda» ha spiegato lo stesso Hilfiger al New York Times. «Il nostro logo era dappertutto, eravamo arrivati al punto che nessuno ne voleva più sapere niente». La salvezza questa volta arriva dall’Europa, dove il marchio venduto in tanti piccoli negozi incassa ben un miliardo di dollari. Un ex business partner di Hilfiger, Fred Gehring, nel 1997 aveva fondato in Europa una società licenziataria del marchio, affidando la parte stilistica a un team di designer olandesi. «La ragione del successo europeo è che eravamo ritornati allo stile preppy con prezzi accessibili» ha dichiarato Gehring, oggi Ceo a livello mondiale della Tommy Hilfiger, al New York Times. Nel 2006 il manager, preoccupato che i problemi americani arrivassero anche in Europa, si mette a cercare un investitore privato. Lo trova in un fondo di investimento, la Apax Partners, che acquisisce la società per 1,6 miliardi di dollari.

Sii sempre visionario

Grazie soprattutto alle vendite europee, il business ritorna profittevole, con un utile annuo di circa 300 milioni di dollari. A settembre 2009, in piena recessione, apre il nuovo flagship store a New York, 2mila mq sulla Fifth Avenue. I numeri attirano l’attenzione della Phillips-Van Heusen, una conglomerata americana (già proprietaria di marchi quali Calvin Klein e Donna Karan), che l’anno scorso decide di ampliare il suo portafoglio acquistando l’azienda per tre miliardi di dollari. Hilfiger mantiene il ruolo di direttore creativo, “visionario” e volto pubblico del brand.

Sii sempre fedele a te stesso. I trend e le mode vanno e vengono. Devi saperti reinventare, senza mai perdere le tue radici

consiglia Hilfiger ai lettori di Millionaire.

L’esperto

«Sì a prodotti innovativi a prezzi contenuti»

La storia di Hilfiger insegna che si può fondare un brand anche senza avere un background come stilista? Lo abbiamo chiesto a Salvo Testa, professore di Fashion Management and Corporate Strategy all’Università Bocconi. È così?

Sì. Nella moda ci sono due tipi di brand: quello fondato dal creativo e quello fondato dall’imprenditore. Mentre il processo di affermazione del creativo è ancora legato a logiche “istituzionali”, cioè le collezioni e la sfilata, che richiedono grossi investimenti, l’imprenditore può presentare i suoi prodotti direttamente nei negozi. In Italia gli esempi sono tanti. Da Renzo Rosso di Diesel a Lapo Elkann con Italia Independent.

C’è spazio per intraprendere oggi?

Negli ultimi 30 anni, il settore della moda non ha dato grandi chance alle nuove iniziative. Oggi, però, c’è Internet. L’e-commerce abbassa le soglie di accesso in termini economici e aggira i canali distributivi tradizionali, arrivando al consumatore senza passare dal negozio. L’alternativa può essere quella di aprire un punto vendita “di ricerca”, cioè che offre una selezione di marchi di nicchia.

Come intraprendere in questo campo?

Proporre un prodotto innovativo, ma a un prezzo interessante: il consumatore non è disposto a spendere tanti soldi per un prodotto nuovo, lo è se il prezzo è contenuto. Lavorare sui prezzi, magari producendo all’estero, ma mantenendo stile e materiali italiani. Per arrivare al consumatore finale, le leve sono due: distribuzione e comunicazione. Il mio consiglio è scegliere canali distributivi alternativi, come i temporary store, e pensare a modi nuovi per comunicare il proprio prodotto, per esempio organizzando eventi.

Tiziana Tripepi, Millionaire 9/2011

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